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Parità di genere, politica e Netflix. Alla Berlinale c'è ben poco di nuovo

Mariarosa Mancuso

A puntuale domanda su Harvey Weinstein, Juliette Binoche presidente della giuria ha risposto che sarebbe ora di lasciarlo in pace. E Woody Allen fa causa a Jeff Bezos

Parità tra i sessi, politica e l’immancabile Netflix. Queste le carte giocate dal direttore uscente Dieter Kosslick alla conferenza stampa di presentazione della Berlinale 2019. Non proprio assi nella manica. L’impegno politico e sociale a Berlino da sempre ruba i riflettori al cinema: Michael Winterbottom ha denunciato i maltrattamenti ai detenuti di Guantanamo; quest’anno l’Italia schiera in concorso “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, dal libro di Roberto Saviano. Di Netflix si parla ovunque. Le insensate quote rosa sono ormai sottoscritte da ogni direttore di festival, grande piccolo o minuscolo che sia (i primi per non fare brutta figura, gli altri per non essere da meno).

 

Sul fronte femminista gli sforzi sono al massimo. Con qualche incidente di percorso. A puntuale domanda su Harvey Weinstein, Juliette Binoche presidente della giuria ha risposto che sarebbe ora di lasciarlo in pace, la gogna è durata abbastanza. Tempismo perfetto, poche ore prima che Woody Allen facesse causa a Jeff Bezos di Amazon, per rottura di contratto: in ballo ci sono 68 milioni di dollari, e un film prigioniero.

 

Sette sono le registe in concorso, su diciassette film (considerando l’intero festival, si arriva a un 41 per cento di donne). I personaggi femminili sono anche di più, dicono i selezionatori – e già si temono i tipici film da Berlinale: povere disgraziate costrette a una sola espressione dall’inizio alla fine, per dimostrare sofferenza & intensità di recitazione.

 

Apre la danese Lone Scherfig, Orso d’oro alla Berlinale 2000 con il film “Italiano per principianti”, commediola scalda-cuore girata seguendo i dettami del “Dogma” di Lars von Trier: un voto di castità cinematografico che imponeva niente luci aggiunte, niente musica aggiunta, niente scenografia, macchina da presa a mano. Roba ormai dimenticata, era il 1995. Dopo il successo di “An Education” – funzionava perché scritto da Nick Hornby, a partire da una di quelle storie che se le inventa uno scrittore diciamo “ma chi ci crede” – ha girato a New York “The Kindness of Strangers”.

 

Siparietto sul titolo: “La gentilezza degli estranei” è una battuta del film “Un tram che si chiama desiderio” (da Tennessee Williams). La pronuncia Blanche Dubois, che tanto con la testa non ci sta. Viene ripresa da Pedro Almodovar in “Tutto su mia madre” (e neanche qui manca una buona dose di velleità, oltre che di ironia). Lone Scherfig cancella i risvolti interessanti e prende la frase alla lettera: il film racconta un incrocio di destini bisognosi e di destini compassionevoli a New York, in un locale per matrimoni russi chiamato Palazzo d’inverno.

 

Lì finisce Zoe Kazan, scappata con i due figli dal marito manesco – senza soldi, per magiare ruba le tartine dai ricevimenti. Lì lavora un ex detenuto dal cuore generoso. Lì va a cenare da sola un’infermiera sull’orlo delle lacrime per la sofferenza che vede ogni giorno. Tema non entusiasmante, svolgimento sentimentale, l’unica consolazione è Bill Nighy che si finge russo, alla clientela piace così.

 

Netflix domina il dibattito sul futuro della Berlinale. Il nuovo direttore Carlo Chatrian (arriva dal Festival di Locarno) – andrà verso la ricerca e lo sperimentalismo, oppure cercherà di far tornare a Berlino i film americani e le nuove major dello streaming? Nel concorso con sette donne, nessun regista americano è stato considerato meritevole. Fuori gara, il mediocre “Vice-L’uomo nell’ombra” di Adam McKay: Christian Bale che per la parte di Dick Cheney ha chiesto aiuto a Satana.

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