I geni di mio padre

Valentina Furlanetto

E’ impossibile che ci assomigliamo, e non ha mai azzeccato un regalo, eppure è lui

Da quando ho visto Santiago, Italia ci penso continuamente. Non al film, ma al mio vicino di posto in sala. Origini cilene e accento spagnolo nonostante viva da vent’anni in Italia. Quando scorrevano i titoli di coda gli ho chiesto quanti anni avesse durante il golpe cileno del ’73. Ne aveva otto. “Te lo ricordi allora” ho detto. “Absolutamente – ha detto lui - Me requerdo gli aerei, el coprifuoco, me requerdo bene”. “Deve essere stato terribile per la tua famiglia”, ho commentato io. “Non direi – ha risposto – i miei erano golpisti”.

 

Io faccio gaffe di ogni tipo, almeno due volte a settimana per tenermi in allenamento. Quindi ho imparato a gestire il gelo e virare su temi neutri (in questo le questioni atmosferiche sono imbattibili, consiglio molto “che freddo sto febbraio non ne usciamo” anche nella versione “si soffoca quest’estate peggio delle precedenti”). Però questa volta il disagio permaneva, continuavo a pensarci. Quel momento imbarazzante illuminava qualcosa, innanzi tutto che non avevo capito niente, che avevo dato per scontata una situazione che non lo era. Era tutto più complicato di così. D’altra parte, lo è sempre.

 

Il mio vicino di posto cileno aveva anche aggiunto: “La verità è che ho i geni di mio padre, ma non ci assomigliamo affatto”. Poi è calato il gelo e io ho attaccato con le questioni atmosferiche.

  

Una volta a casa ho cercato in rete frattaglie della mia infanzia. Ci ho messo un po’, non è roba facile da reperire, perché mentre voi crescevate nelle vostre camerette dai rassicuranti colori pastello, io e mio fratello dormivamo in una stanza con appesi i poster della Unidad Popular, giocavamo ai desaparecidos, ascoltavamo musiche di Guccini, viaggiavamo senza cinture su una Skoda bianca e respiravamo a pieni polmoni il fumo delle Muratti. Andavamo anche al Liceo Classico. Tutto questo nel Veneto degli anni Ottanta veniva visto con sospetto, dettaglio del Liceo compreso. In rete ho trovato quel che cercavo: i poster appesi alle pareti della mia cameretta erano dei disegni a tinte forti e scritte adatte alla prima infanzia tipo “Y el pueblo unido Jamàs serà vencido” e “A trabajar!”. Su un terzo poster un pugno nero su sfondo rosso con una falce e un martello che io vedevo ogni mattina quando aprivo gli occhi e che da allora mi porta all’associazione diretta tra lotta marxista e caffellatte. Il fatto che io e mio fratello non abbiamo riportato traumi permanenti o perlomeno evidenti da tutto questo mi rassicura sempre sulla capacità dei figli di cavarsela nonostante i genitori.

 

Rivedere quelle immagini è stato emozionante e surreale. Mi ha fatto pensare a mio padre, il quale in ordine sparso: aveva attaccato quei poster, allevava scimmie di mare nell’acquario convinto che ci avrebbero reso ricchi, mi ha fatto vedere 2001: Odissea nello spazio a sei anni, si è dimenticato di me in edicola almeno una volta quando andavo alle elementari, quando avevo 15 anni mi ha aspettato due ore in auto fuori da un concerto, pochi anni fa si è presentato in piazza San Babila a Milano con un enorme cesto di ciliegie. Stava lì impettito, altissimo, immobile in mezzo al traffico milanese con il suo cesto di ciliegie per me. Non ha mai indovinato un regalo, ma non ha mai smesso di farmene.

 

Il giorno dopo la visione del film, la gaffe con il cileno e la ricerca notturna dei frammenti della mia infanzia, si parlava di paternità sulla prima pagina di un quotidiano nazionale. Il titolo era “La scoperta dopo 20 anni ‘Non sono il padre dei miei figli’”. Parlava di Richard Mason, inglese, che ha scoperto a cinquant’anni di essere sterile dalla nascita. I tre figli, ormai adulti, erano frutto della relazione della moglie con un altro. Dopo lo shock iniziale, Richard Mason ha ripudiato i figli. Non ha più voluto vederli. Ha deciso che siccome non avevano i suoi geni non erano più suoi. Come se il fatto di averli visti crescere, di aver curato le ferite da cadute in bicicletta, di avergli soffiato il naso e fatto fare i compiti per anni non contasse più niente di fronte al dato biologico. Come se Giuseppe, per dire, avesse detto a un certo punto “Senti Maria, questa storia che mi hai raccontato – diciamocelo – non sta in piedi, non penserai che questo Gesù lo allevi come figlio mio, no?”. Sarà che per me la biologia è sopravvalutata, ma davvero la storia di questo Mason mi risultava incomprensibile.

 

Lo dimostra il mio vicino di posto cileno che ha un padre biologico che non gli somiglia affatto. Lo dimostrano i genitori veri, ma non di sangue. E lo dimostra il fatto che tutte le volte che qualcuno dice che io e mio padre ci assomigliamo non sono capace di dare loro torto. Anche se non ci assomigliamo affatto, la sua testa sfiora il soffitto e io non arrivo alla prima mensola. E’ diventato mio padre quando avevo quattro anni, è impossibile che ci assomigliamo e tuttavia è decisamente mio padre. Ovviamente sto ancora aspettando che le scimmie di mare ci rendano ricchi. Ma abbiamo tempo.

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