La nostalgia canaglia di Nanni Moretti

L’ultimo film "Santiago Italia" è un documentario avvincente che però coccola solo una parte della storia

Marina Valensise

Brutta bestia la nostalgia, se intrisa di ideologia fuori tempo massimo. Lo dimostra l’ultimo film di Nanni Moretti. “Santiago Italia” è un bel documentario sul mito di Salvador Allende, il primo comunista rivoluzionario democraticamente eletto alla presidenza del Cile, deposto l’11 settembre 1973 da un golpe militare che mise fine a un esperimento che stava mandando il paese in bancarotta. Moretti però sogna e discetta sempre col ditino alzato. Sforna un documentario avvincente, visto da noi fra pochi spettatori commossi, ma non sembra mostrare nessuna curiosità, nessuna inquietudine, non parliamo di resipiscenza nel riproporre una vicenda vecchia di cinquant’anni… Guarda Santiago dall’alto con le Ande sullo sfondo ed entra subito in medias res, dando un microfono a tanti sessantenni che ricordano i loro vent’anni vissuti nel sogno rivoluzionario, nella festa permanente di un paese “enamorado de Allende”, come dice Carmen Castillo quando evoca l’attesa palingenetica suscitata da quel medico massone, leader di Unidad popular, coalizione di socialisti, comunisti, radicali e progressisti, che eletto col 36 per cento dei voti per realizzare la via cilena al socialismo, decise di nazionalizzare banche, industrie, trasporti, persino le miniere di rame senza pagare pegno agli americani, congelò il debito, abolì il latifondo, decretò la scuola libera e gratuita per la prima volta nella storia del Cile, anche se i bambini poveri non andavano a scuola perché si vergognavano di non avere le scarpe… E’ tutto molto rivoluzionario in questo documentario stile anni Settanta, coi filmati dell’epoca dei comizi di Pablo Neruda, dei cortei per le vie di Santiago, dei concerti degli Intillimani che al suono di El pueblo unido jamás será vencido davano la linea all’internazionale comunista. Peccato però che la ricostruzione lasci poco spazio alla verità della storia, col rischio di scivolare nell’impostura.

 

Moretti del resto non è imparziale. Lui stesso lo dichiara a un ex ufficiale di Pinochet, il generale Eduardo Iturriaga, ancora detenuto nel carcere di Punta Peuco, che invoca oblio e perdono e vorrebbe un interlocutore meno fazioso. Ma è soprattutto manicheo quando divide il mondo tra buoni e cattivi, vittime e carnefici. Da un lato ci sono i rivoluzionari, ingenui, generosi, fantastici. Vorremmo conoscerli uno per uno e abbracciarli per il coraggio e l’ironia con cui hanno resistito alla tortura, come quella bella signora che racconta per filo e per segno come dopo essere stata spogliata da una donna, veniva stesa nuda su una rete di ferro da sadici poliziotti, che legandole mani e piedi e tappandole gli occhi con un nastro adesivo, le infilavano un elettrodo nella vagina per farla parlare. Dall’alto lato, i carnefici, i militari di Pinochet, come il generale Garin, che a distanza di cinquant’anni non è per niente pentito di aver bombardato la Moneda, deposto Allende, non si sa se morto assassinato o suicida, e governato col terrore. Tra gli uni e gli altri il vuoto. Nessun accenno alla situazione incandescente in cui si trovava Allende, con Santiago che pullulava di agenti cubani, Fidel Castro che in visita per oltre un mese alla Moneda offriva un kalashnikov in dono, la popolazione allo stremo per la crisi economica, e la minaccia incalzante di una rivoluzione proletaria, di una primavera “cilena” teleguidata dall’Urss nel cuore del sud America.

 

Eppure Nanni Moretti non solo ha letto il libro di Emilio Barbarani, ma ha anche intervistato il diplomatico che, giovanissimo console d’Italia a Santiago, fu protagonista della vicenda dei rifugiati all’ambasciata, una storia raccontata in “Chi ha ucciso Lumi Videla? Il golpe di Pinochet, la diplomazia italiana e i retroscena di un delitto” (Ugo Mursia editore, 2012), testimonianza fondamentale che, grazie a una coproduzione italocinese, diventerà presto un film di Cinzia Bomoll e Maddalena Gizzi.

 

Barbarani arriva a Santiago nel dicembre 1974, dal capomissione Tomaso De Vergottini. E’ sprovvisto di immunità perché l’Italia del compromesso storico, all’epoca di Rumor, Andreotti, Moro e Fanfani e del Pci al 34 per cento, non vuole riconoscere la giunta militare cilena, e ha l’incarico di occuparsi dei 700 rifugiati, fra i quali 250 oppositori politici, ma anche molti criminali comuni, molti infiltrati dei servizi segreti, molti semplici cittadini coi loro figli bambini, i quali, saltando da un muretto erano entrati nella residenza dell’Ambasciatore e vivevano da mesi accampati lì dentro in attesa di un visto. Barbarani racconta nel suo libro la vicenda di Lumi Videla, coi capi della Sinistra rivoluzionaria sospettati di omicidio, quando nel giardino dell’ambasciata viene trovato il cadavere di una giovane donna, una militante che forse faceva il doppio gioco, uccisa dopo un’orgia in ambasciata secondo la Giunta, martire del regime, uccisa fuori dall’Ambasciata e lanciata cadavere dal muro, secondo i rivoluzionari.

 

Moretti raccoglie la testimonianza di Piero De Masi, capomissione all’epoca del golpe, Roberto Toscano, che ricorda il terrore allo stadio, luogo di detenzione provvisoria per migliaia di militanti, e Enrico Calamai. Ma non dà voce a due moderati come la moglie di De Vergottini e l’ambasciatore Barbarani. E pur avendo a disposizione, grazie a Barbarani, una figura emblematica della destra cilena come Hermogenes Perez de Arce, pronto a offrire la sua versione, si è ben guardato dal contattarlo. Peccato. Per uno che ha il pallino di dire qualcosa di sinistra, è un’altra occasione perduta. Meglio scoprire la verità che ostinarsi a piegare la realtà ai nostri desideri.

Di più su questi argomenti: