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Bullizzavo i miei compagni e i prof. Poi sono diventato il padre di me stesso

Alberto Schiavone

All’Itis bisognava provare a diventare adulti in un luogo che dava i voti al mondo di fuori

Scelsi l’Istituto Tecnico Industriale Statale perché mi avevano detto che lì, parliamo del 1994, si usava il computer. Avevo bisogno di futuro. Ribadivo a chiunque il mio desiderio di iniziare il prima possibile a lavorare, il tempo passato tra i banchi scolastici mi pareva tempo perso. Avevo fretta, sciocco, di trasformarmi in adulto, e in quanto a cecità e grettezza ero sulla buona strada. Non mi accorgevo che l’emancipazione, soprattutto economica, che andavo cercando, era una suggestione giusta ma di cui non conoscevo il vocabolario. Dalle scuole medie uscivo come uno dotato, ma che non si impegnava. Ero stato anche sospeso, un paio di volte. Legavo con i poco di buono e quando rischiavo di passare anche io sotto quella insegna, recuperavo con un colpo di reni e una manciata di buoni voti. Quindi l’Itis era un approdo concreto, del liceo o dello scientifico ignoravo quasi il perimetro, e non conoscevo nessuno che li frequentasse. I miei amici del tempo erano quelli dei giardini sotto casa, tutti più grandi di me e già sconfitti. Dal lavoro, dalla vita, dalla famiglia.

 

Sarei dovuto partire dall’Itis per atterrare al Politecnico, questo mi spiegarono nel primo biennio. Molti dei miei compagni avevano tracciato una linea e quei primi passi erano soltanto l’inizio di un cammino che non prevedeva curve.

 

Avevo insegnanti che di questa concretezza, che ci distingueva dai filosofi inutili delle altre scuole, facevano bandiera e vanto. Noi lì risolvevamo problemi ogni giorno. E ci si stava preparando a una carriera che avrebbe tutti i giorni posto dei problemi nuovi.

  

La prossimità al mondo del lavoro che tanto mi aveva conquistato la potevo sentire nelle telefonate che i miei professori facevano in classe. Telefonate di lavoro, l’altro, perché quasi tutti loro avevano anche uno studio, un altro impiego, e non celavano la scaltrezza di occupare le ore dell’insegnamento con i loro affari. Ci stavano insegnando anche quello.

  

I miei professori chi erano? C’era quello di elettrotecnica che ci chiamava figli di puttana, si faceva il segno della croce a mezzogiorno, e in gita a Parigi provò a farci saltare la coda al Louvre, ricevendo il biasimo degli altri visitatori. A Praga andò meglio, perché ci portò a vedere uno spettacolo porno in un cinema, tanto costava poco. Ci eravamo fatti abbindolare da uno dei tanti omini buttadentro. Ognuno di noi aveva pagato la sua quota e ci eravamo poi trovati dentro questo vecchio cinema puzzolente a vedere due che scopavano sul palco. Erano molto pallidi e magri. In sala noi rumorosi e sfaldati, più qualche uomo solo.

  

Anche noi eravamo uomini soli, perché dell’Itis un’altra caratteristica era quella di avere un rapporto uomini donne decisamente sbilanciato. In tutto l’istituto infatti si contavano sei o sette femmine. Invidiavamo i loro compagni di classe, che però erano quelli dell’indirizzo informatica. Gente strana. Poco concreta.

 

Anche i professori dell’indirizzo informatica erano strani. Quasi tutti con la barba, gli occhiali, il maglioncino sopra la camicia. I professori miei avevano la giacca e la cravatta, si facevano la barba tutti i giorni. Professionisti. Molti dei miei compagni curavano i marcamenti, per dirla alla Bianciardi, anni dopo sarebbero potuti diventare dipendenti dei loro ex professori. E poi chissà, soci? Rivali? Sarebbero loro stessi potuti diventare insegnanti? Ci avrebbero pensato una volta al Politecnico.

 

Intanto bisognava provare a diventare adulti in un luogo che dava i voti al mondo di fuori. Passavamo tante ore con pochi insegnanti, e frattaglie con molti altri. Lingue, lettere, storia, venivano relegate a materie da una manciata di ore a settimane. Persino educazione fisica veniva considerata più meritevole. E noi ci accanivamo sui professori di categoria inferiore. Gli tiravamo gli oggetti, li prendevamo in giro, li facevamo piangere. Una violenza vigliacca che si riversava anche sui compagni di classe che decidevamo meritevoli di vessazione. Era bullismo, credo. Occhiali rotti, dentifrici sparsi dentro le mutande, estorsioni, schiaffi. Uno zaino riempito con le feci di tre di noi (come avevamo fatto a trasportarle? Non ricordo). Ho due o tre volti di ragazzo su cui credo di essermi accanito. Non ne ricordo il nome, dovrei andare a cercare in qualche faldone. Persone mai più viste. Non rimpiango loro e non rimpiango me stesso. D’altronde tutta quella concretezza e ostinata rincorsa all’adultità mi aveva sfiancato. Stavo cambiando e non volevo camminare in quella direzione. L’insegnamento del mio diploma era di mostrarmi cosa non avrei voluto diventare.

 

Uscii dall’Itis con voto quattro di elettrotecnica e otto di italiano. E non avevo imparato a usare il computer. Non andai al Politecnico, ma a studiare Storia dell’Arte a Bologna, mantenendomi facendo il cameriere. A proposito di concretezza. Lì conobbi tanti ex liceali, che si erano molto divertiti nei precedenti cinque anni, a differenza mia. Me ne trovai di fianco uno che mezz’ora prima di dare un esame mi chiese di spiegargli in breve tempo Modigliani, perché lui non aveva studiato. Mi venne voglia di picchiarlo, ma ero diventato adulto e sapevo che non era la cosa giusta da fare. E diventare adulto significava diventare un po’ il professore, il padre, di se stesso.

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