Il campus dell'università di Yale, Usa (Ansa) 

il bi e il ba

Un piano vaccinale contro il virus della identity politics all'americana

Guido Vitiello

Quattro consigli di lettura per immunizzarsi prima che arrivi anche da noi il pensiero della sinistra intollerante e identitaria delle università Usa. Un'intolleranza che serve da carburante anche per il suo corrispettivo a destra

La settimana scorsa il Bi e il Ba vi ha parlato della campus left all’italiana come scimmiottatura di quella americana. Più che da Yale, dicevo, i nostri Social Justice Warrior sembrano venuti da Hogwarts, la scuola di magia di Harry Potter. Ebbene, un amico che ha studiato veramente a Yale mi ha obiettato che quelle che a me sembrano formulette magiche – Check your privilege! Microaggression! Mansplaining! – hanno radici molto più profonde. Ha ragione; ma proprio perché quelle radici le conosco bene, e ho osservato per venticinque anni il tronco deforme che ne è nato, mi auguro che nel terreno italiano non attecchiscano mai, e che tutto finisca con qualche ramoscello ideologico e qualche fogliolina gergale d’importazione, che possa volare via al primo refolo di una nuova moda.

Per dirla in termini virologici, spero che la spaventosa regressione illiberale, intollerante e neotribale di una parte della sinistra americana non diventi pandemica, come in parte è già avvenuto con la destra. Non potendo però escluderlo, approfitto di questo spazio per suggerire un piano vaccinale bibliografico, un tetrafarmaco per arrivare pronti all’appuntamento. Accantonando per il momento le fonti più ovvie, come Allan Bloom e Robert Hughes, partirei da un libro di Roger Scruton, “Fools, Frauds and Firebrands. Thinkers of the New Left”, che isola gli agenti virali, per lo più francesi. Proseguirei con “French Theory. Foucault, Derrida, Deleuze & Co. all’assalto dell’America” di François Cusset, che mostra, in modo sociologicamente persuasivo, cosa è accaduto quando il virus, che all’aria aperta nel dibattito francese era tutto sommato innocuo, è stato coltivato per decenni nei laboratori chiusi dei campus americani.

Poi passerei alla grande antologia “Theory’s Empire” di Daphne Patai e Will H. Corral, settecento pagine su tutte le province che l’impero del postmodernismo ha via via conquistato, partendo dagli studi letterari per arrivare alle scienze sociali, alla pedagogia, agli studi postcoloniali, femministi e queer. E infine, lo spillover nel mondo extra-accademico, ricostruito in un formidabile pamphlet di pochi mesi fa, “Cynical Theories: How Activist Scholarship Made Everything about Race, Gender​, and Identity—and Why This Harms Everybody”. Gli autori, Helen Pluckrose e James Lindsay, sono i due giovani studiosi che quattro anni fa insieme a Peter Boghossian hanno replicato su grande scala la beffa di Alan Sokal, sottoponendo una ventina di paper deliranti a riviste postmoderniste, molti dei quali sono stati pubblicati (uno riguardava la “rape culture and queer performativity” tra i cagnolini nei parchi).

“Cynical Theories”, scritto da una prospettiva liberale, progressista, illuminista e universalista, è il miglior antidoto che conosca alla cultura dei Social Justice Warriors, ai danni che sta facendo alle cause che pure vorrebbe promuovere e ai suoi influssi nefasti sul quadro politico generale: la identity politics della sinistra identitaria è un carburante per la identity politics dell’estrema destra, dicono gli autori, ed è da ingenui non accorgersi che produrrà un contraccolpo reazionario. Sono problemi americani, per il momento, e continuo a pensare che tutto questo in Italia resterà allo stadio Harry Potter. Ma nel dubbio, per prudenza, fatevi almeno una dose del mio tetrafarmaco.

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