Jean-Claude Juncker e Donald Trump (foto LaPresse)

Trump, l'alleato che non c'è più

Micol Flammini

Il presidente americano vuole indebolire i rapporti con l’Europa e i suoi ambasciatori flirtano con i populisti contro Bruxelles

Roma. Piacerebbe pensare che non ci sia alcun piano e che sia tutto disegnato dal caso, che però spesso crea forme verosimili e spaventose. Unendo i puntini, ripercorrendo le scelte compiute negli ambienti diplomatici dal presidente americano, sembra chiaro che Donald Trump abbia deciso di affidare l’incarico di ambasciatore in paesi strategici dell’Unione europea a figure euroscettiche, pronte a fomentare l’idea della creazione di un’Europa dei populismi, smantellando quindi l’Europa che c’è.

 

 

L’incarico di ambasciatore, secondo una pratica consolidata ormai da anni, è un premio, una ricompensa per ringraziare i sostenitori e i finanziatori delle campagne presidenziali. Una villeggiatura che poco ha a che vedere con il lavorìo, minuzioso e solerte, che invece viene svolto dagli altri funzionari delle ambasciate. Le dichiarazioni di questi simpatizzanti del sovranismo che il presidente americano ha sparpagliato per l’Europa pesano nei rapporti tra Stati Uniti e Ue e come ha più volte ripetuto Anthony Gardner, ambasciatore americano dell’Amministrazione Obama a Bruxelles dimessosi nel 2017, non è un caso: le scelte di Trump in Europa rispondono alla volontà di rafforzare le forze nazionaliste. Gardner è stato sostituito a maggio da Gordon Sondland, un imprenditore dell’Oregon, proprietario di hotel e ristoranti di lusso, cofondatore di una banca, l’Aspen Group, e tra i maggiori finanziatori di Trump. Sondland è stato ricompensato con la rappresentanza a Bruxelles e tramite questo ruolo sta mandando segnali chiari sul fatto che l’alleanza, un tempo naturale e spontanea, tra l’Unione europea e gli Stati Uniti è in crisi. In un’intervista rilasciata a Politico a inizio dicembre, Sondland ha accusato le istituzioni europee di “aver perso il contatto con la realtà”, di sottomettersi alle volontà dei francesi e di essere vittime dei loro stessi regolamenti, con i quali non soltanto frenerebbero gli affari degli stessi imprenditori europei, ma paralizzerebbero anche i negoziati con gli Stati Uniti. Gli alfieri del trumpismo in Europa, proprio come il presidente americano, non seguono i protocolli diplomatici, hanno spesso rilasciato dichiarazioni a sostegno dei governi populisti che finora hanno causato non pochi danni e sfilacciato quell’alleanza un tempo solida. Non è frutto del caso, né del caos se a Berlino Donald Trump ha inviato Richard Grenell, chiamato da Breitbart “Right Hand Man in Europe” del presidente americano. Questo “braccio destro”, uno dei tanti di Trump, appena arrivato in Germania non ha esitato ad avvertire l’Ue che anche a Washington c’è chi vuole destabilizzarla e il suo incarico a Berlino serviva anche a ricompattare le destre. Lo scorso anno invitò i rappresentanti dell’AfD, l’estrema destra tedesca, al suo insediamento, comportandosi, secondo le parole di Martin Schulz, più come l’esponente di un movimento che come un rappresentante diplomatico. Grenell a inizio mandato si definiva “esaltato dall’avanzata populista in Europa” e con un tweet in stile trumpiano mise in guardia le aziende tedesche dal fare affari con l’Iran.

 

Il cuore populista ha iniziato a battere a est, in quella parte dell’Europa che secondo i suoi leader, come ha detto il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki in un discorso prima della fine dell’anno, Bruxelles non può e non vuole capire. Quell’Europa orientale che dopo la Brexit pensava di uscire dall’Ue e che, quando la Brexit è diventata la storia complicata e triste che conosciamo, ha cominciato a parlare di riforme per ridisegnare l’Unione. Proprio quei paesi, soprattutto Ungheria e Polonia, ora vanno incontro a procedure di infrazione per violazioni dello stato di diritto, e gli uomini di Trump mandati a Budapest e a Varsavia si sono schierati dalla parte dei governi. David Cornstein, nominato ambasciatore in Ungheria, ha stretto rapporti molto stretti con Viktor Orbán, lo ha difeso quando l’Università fondata e finanziata da George Soros, la Central european university, è stata espulsa e si è trasferita a Vienna per volere del governo, dicendo: “In Ungheria non ho visto cittadini scontenti del loro governo” e, quando si insediò a giugno, arrivò con un messaggio populista a sostegno dell’operato di Orbán: “L’esecutivo qui ha il sostegno del governo americano. Penso che abbia il supporto del segretario di stato. So che ha il sostegno dell’ambasciatore americano”. Quando Trump inaugurò il suo tour europeo, scelse Varsavia come prima tappa. Quella visita, secondo alcuni analisti polacchi, incoraggiò il governo nazionalista a spingersi oltre, gli diede la fiducia necessaria per procedere sulla linea dello scontro con l’Europa. All’ambasciata americana in Polonia, il presidente ha mandato un’altra sua sostenitrice, un’imprenditrice con simpatie repubblicane, Georgette Mosbacher, poco amata però dalla leadership polacca, che la ritiene troppo moderata. Il disegno c’è, gli uomini di Trump in Europa sostengono un progetto chiaro, quella voglia populista di riformare l’Unione, di renderla meno unita, quindi più vulnerabile e di rompere un’alleanza della quale Bruxelles non aveva mai dubitato.

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