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Google Maps Bianciardi. Manzini e la città “agra” che non c'è più

Maurizio Crippa

Il libro di Gaia Manzini è una guida per orientarsi in una Milano che in parte è scomparsa. Compagno di viaggio: lo scrittore maremmano, che questa città la amava/odiava

All’inizio due botti. Il botto che l’anarchico venuto da Grosseto per vendicare i minatori morti non fece mai, risucchiato dalla dolce bohème della città agra. E il botto della notte dopo gli esami, la notte del 27 luglio 1993, quando l’io narrante di questo viaggio à rebour nella Milano che non c’è più, cioè Gaia Manzini o la scrittrice che allora forse non sognava di essere, prende il motorino con un’amica e va a ballare, “sembra che stiamo scappando, in realtà non ci interessa di quel fragore, né delle sirene della polizia e delle ambulanze”. Il botto al PAC di via Palestro, cinque morti. Qualcuno aveva fatto davvero ciò che l’alter ego di Luciano Bianciardi aveva soltanto immaginato, nel 1962. Chissà se la lunga fedeltà di Gaia Manzini per Bianciardi è iniziata allora. Fu un amico a dirle: “Sarà stato il fantasma di Bianciardi”.  Anni dopo, lo scrittore della Vita agra è diventato oggetto di un libro-viaggio, A Milano con Luciano Bianciardi (Giulio Perrone Editore), fatto di memoria e di affetto per lo scrittore, ma anche di scoperta di un territorio ignoto, la Milano che Bianciardi vide e amò/non amò, che non c’è più ma è esattamente “questa” città. Quasi rintracciata con un Google Maps del passato. Ed è l’aspetto più intrigante del libro, più ancora della Milano del Derby, di Gaber e Jannacci, “l’altra Milano” che non c’è più e che la Milano di oggi accarezza spesso con troppo retorica.

Il viaggio di Manzini parte dalla bomba esplosa davanti ai giardini di Porta Venezia e che “mandò in frantumi i vetri di quasi tutti i palazzi di via Turati e via Fatebenefratelli”. E parte dalle strade di quella Milano del 1954 che aveva chiamato Bianciardi, “ci era arrivato in treno, con una valigia e l’indirizzo di una pensione scritto su un biglietto stropicciato”. “Tutto un cantiere”, il nuovo piano regolatore, un milione e trecentomila abitanti, il boom. “Ovunque si buttava giù una casa per costruire un palazzo, più alto, più brutto, o almeno così sembrava a Bianciardi”. E lui era giunto per far saltare la sede di quella grande industria, il “torracchione”. Già, ma dove era? Dove se l’era immaginato? E’ il filo del viaggio di Manzini, perché “viene subito in mente la Torre Velasca di Ernesto Nathan Rogers”, ma le coordinate precise nel libro non ci sono: “Nel film di Lizzani è stato individuato nella fotogenica e slanciata Torre Galfa”, ma non è quella.

Poi c’è il vagabondare tra povertà, successo e amore dello scrittore: le pensioni di Brera, gli alberghetti da commessi viaggiatori in zona Centrale, la stanza in condivisione e gli appartamentini in via Marghera e in via Domenichino, tra una Milano di villini (il Derby) e signorile e la nuova periferia, la Fiera. Una “modernità” che Bianciardi odiava, la Milano agra. E allora, il torracchione e le strade attorno ai primi lavori. “Nel 1955, in piazza della Repubblica, all’angolo tra via Vittor Pisani e viale Tunisia, sorse la Torre Breda progettata da Eugenio ed Ermenegildo Soncini e Luigi Mattioni. Con i suoi 116 metri è stata la prima costruzione a contravvenire al divieto fascista”, quello di non salire più della Madonnina. Luigi Zampa nel celebre attico ovale girò Ragazze d’oggi, ma non è nemmeno quella. Forse, dall’altra parte di via Manin, avrebbe visto “la torre del Centro Svizzero di Armin Meili in piazza Cavour”. Nemmeno questa. Bianciardi cercava il torracchione della Montecatini, la società idealmente al centro del suo romanzo. E “i palazzi della società a Milano sono due. Il primo fu realizzato da Gio Ponti nel 1936-38. Un palazzo a forma di H, all’incrocio tra via Turati e via Moscova”. Il secondo, del 1951 e sempre di Gio Ponti, si trova dall’altra parte dell’incrocio. Entrambi affacciano su largo Donegani. “Le coordinate precise Bianciardi le dà solo nella sua Lettera da Milano apparsa sul Contemporaneo nel 1955: ‘A Milano invece la Montecatini è una realtà tangibile, ovvia, cioè si incontra per strada, la Montecatini è quei due palazzoni di marmo, vetro e alluminio, dieci, dodici piani’”. Una Milano che non c’è più, quella di Bianciardi, e contraddicendo la fascinazione di Gaia Manzini si può imparare a non più rimpiangerla. Ma c’è invece ancora la Milano di certi palazzi, della sua tumultuosa trasformazione. Da scoprire come in una mappa di Google, puntigliosa, piena di dettagli e sorprese. Di affetto agro-dolce per Milano.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"