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Trasformare San Siro con un intervento davvero ambizioso si può

Pier Paolo Tamburelli

Una soluzione di buon senso sarebbe sviluppare l’area e ristrutturare lo stadio. Ma a questa idea si oppongono i due club

Cara GranMilano - Sul futuro di San Siro si sono ormai costruiti due partiti inutilmente dogmatici (visto anche che i dettagli del progetto sono ignoti), ma se si osserva la questione dal punto di vista dell’interesse generale credo si possano definire alcuni criteri su cui mi pare difficile non essere d’accordo:

a) oggi l’area attorno allo stadio non ha nessuna qualità; se la si trasforma (e quindi se si costruisce) è meglio per tutti;

b) gli indici di edificazione previsti per l’area vanno rispettati; si tratta semplicemente di osservare la legge;

c) lo stadio attuale è bellissimo (lo dicono con enfasi anche i progettisti di quello che dovrebbe sostituirlo). Lo spettacolo architettonico della folla che esce da San Siro ruotando secondo le differenti orbite delle rampe del secondo e del terzo anello è semplicemente unico al mondo;

d) non si capisce a chi convenga sperperare questo patrimonio (qui inteso proprio in senso di risorse materiali, ricchezza, soldi), non alla città, non alle società;

e) se non si demolisce lo stadio, si evita anche di dover portare in discarica circa 200 mila metri cubi di macerie.

 

Da queste premesse sembrerebbe poter conseguire un agevole compromesso: sviluppare l’area e ristrutturare lo stadio magnifico che abbiamo avuto la fortuna di ereditare. A questa soluzione di buon senso si oppongono (per ora) i due club. A sentire i club, lo stadio non può essere trasformato. Ma questo, ovviamente, non è vero. Un edificio gigantesco come San Siro può sempre essere trasformato, perché banalmente nel grande ci sta il poco e anche il tanto: si può trovare spazio nello stadio attuale, se ne possono demolire selettivamente alcune parti, si può costruire attorno (un quarto anello di servizi), le possibilità sono infinite. Peraltro la stessa capacità dell’edificio di accumulare trasformazioni di epoche diverse è garanzia della sua capacità di reagire anche a nuovi scenari, mentre un edificio perfettamente corrispondente alle esigenze di oggi rischia di essere obsoleto già tra vent’anni (ad Atlanta hanno fatto un nuovo stadio nel 1992 e poi un altro nuovissimo nel 2017, ne vogliamo davvero fare uno ogni venticinque anni?).

 

Il problema non è se sia possibile trasformare, ma come farlo. E la trasformazione richiede disponibilità al compromesso, che in questo caso è un vero e proprio compromesso economico-politico-architettonico, in cui la forma traduce in organizzazione materiale l’accordo tra i differenti soggetti coinvolti. Si tratta di superare non solo la rigidità dell’edificio, ma anche quella delle pretese delle società. Ed è qui che si apre lo spazio per una vera innovazione. Invece che misurare lo stadio esistente su un business plan preconfezionato, costatare l’ovvia non corrispondenza dell’edificio al format e concludere che si deve demolire, si possono interpretare in modo nuovo tanto gli spazi dell’edificio che i modelli che ne guidano la trasformazione.

Fin qui, nel dibattito su San Siro, chi vuole demolire si è appropriato della bandiera dell’innovazione. E questa innovazione un po’ banale e un po’ manesca è quella che Milano ha conosciuto in questi ultimi anni: applicare per la prima volta in Italia sperimentati format internazionali a cui vengono apportate solo minime variazioni. Il risultato è stato qualcosa che appare nuovo e moderno se visto da Piacenza, ma che a livello internazionale non può convincere nessuno. A San Siro invece ci sarebbe un’opportunità, per una volta, di innovare sul serio, con un po’ di ambizione vera, immaginando una trasformazione basata sulle specificità del caso (la presenza di due club, la straordinaria qualità dell’oggetto architettonico) e sviluppando un modello davvero diverso da quelli già disponibili, davvero innovativo. E’ il metodo che si è scelto in quella che è stata l’operazione urbana più raffinata della storia milanese recente, la Fondazione Prada. Se si è trovato il modo di rendere affascinanti quei capannoni senza gloria, non si capisce come non si possa fare qualcosa di ancora più bello con uno dei grandi monumenti di Milano.

 

P.S. Nel 1963 a New York, per fare posto al Madison Square Garden, venne demolita Penn Station. Ada Louise Huxtable scrisse sprezzante sul New York Times “Any city gets what it admires, will pay for, and ultimately, deserves”. Anche per Penn Station si disse che i costi di mantenimento erano proibitivi e l’uomo d’affari che guidò l’operazione (I. M. Felt) promise che “tra cinquant’anni, quando si dovrà demolire il Madison Square Garden, ci sarà un gruppo di architetti che protesterà”. Non è andata esattamente così: il Madison Square Garden è stato rifatto nel 1991 e poi ancora nel 2011 e si sta discutendo di spostarlo di nuovo. Nessuno se l’è presa a cuore. Invece la ricostruzione di Penn Station viene riproposta ad ogni campagna elettorale. C’è anche un’associazione solo per quello. Non demolire San Siro ci risparmierebbe anche secoli di comitati per la sua ricostruzione.

 

Pier Paolo Tamburelli, partner baukuh architetti, professore TU Vienna

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