Giovanni e Marella Agnelli con i figli Edoardo e Margherita che tiene in braccio Pietro. E poi Anna Agnelli, John Elkann, Andrea Agnelli, Ginevra e Lapo Elkann (foto LaPresse)

Casseforti di famiglia

Stefano Cingolani
Ecco come i “padroni del vapore” hanno messo al sicuro le ricchezze destinate ai propri eredi. Il modello Ford ha conquistato anche gli eredi Agnelli: il massimo del comando con il minimo esborso di denaro.

Quando la società fece il suo debutto a Wall Street, il 17 gennaio 1956, nove anni dopo la morte di Henry Ford che aveva sempre rifiutato di quotarla in borsa (cioè di “metterla nelle mani degli speculatori ebrei”) la già numerosa famiglia decise di riservare per sé una quota di azioni di “classe B” che incorporano uno speciale diritto pari a sedici voti per ogni cedola. In termini assoluti il pacchetto oggi posseduto dai Ford è un’esigua minoranza (si stima circa il due per cento), però equivale al 40 per cento dei diritti di voto, quindi al controllo reale del gruppo multinazionale. Le azioni si pesano e non si contano soltanto. Per aver enunciato questo truismo, Enrico Cuccia è stato bollato come nemico numero uno della democrazia economica. In realtà, il conflitto tra peso specifico e quantità è vero sempre e ovunque, sia pure in forme diverse.

 

Il modello Ford sembra aver conquistato anche gli eredi Agnelli. Il progetto nasce da lontano, ma è stato messo a punto nell’ultimo mese. Il 25 luglio John Elkann che il nonno, Gianni detto l’Avvocato, aveva cooptato al vertice della piramide, ha informato che dopo la Fiat Industrial, confluita nella Case New Holland, la Fiat-Chrysler e la Ferrari, emigrano in Olanda anche Exor, cioè la holding finanziaria dell’intero gruppo e la Giovanni Agnelli & C, società in accomandita per azioni, in breve la cassaforte di famiglia. Exor diventa una spa olandese e l’altra una BV, Besloten Vennotschap, cioè l’equivalente di una nostrana srl, società a responsabilità limitata. Resta in Italia la Dicembre dei due fratelli John e Lapo Elkann, che detiene il 33 per cento della nuova BV. Intanto, la Giovanni Agnelli & C. cambia anche statuto. La nuova carta prevede che per l’approvazione di una delibera del consiglio di amministrazione su qualsiasi atto di vendita o trasferimento di azioni Exor, non sia più necessario avere almeno il 51 per cento del capitale. Dunque, perdere la maggioranza delle azioni non è tabù a patto di continuare a mantenere la maggioranza dei diritti di voto. Exor Nv adotterà in Olanda, dove ciò è consentito, un meccanismo speciale, attribuendo cinque diritti di voto per ogni azione posseduta da quei soci che deterranno le quote per almeno cinque anni; e 10 diritti di voto per chi le terrà più a lungo. Per vie diverse e più tortuose, insomma, si arriva allo stesso obiettivo dei Ford: il massimo del comando con il minimo esborso di denaro.

 

Gli Agnelli, a partire soprattutto dagli anni Settanta, hanno controllato la Fiat con un grande effetto leva: in media un euro di capitale proprio ogni 13 euro conferiti dagli azionisti di minoranza. Ma non sono gli unici. Tutte le grandi famiglie del capitalismo italiano hanno fatto lo stesso attraverso una struttura talvolta barocca, riconducibile alle scatole cinesi. Le cose stanno cambiando? E come? Per capirlo gettiamo uno sguardo nei piani alti, anzi altissimi del potere economico, addirittura dentro i caveau più protetti e, talvolta, persino segreti. Sarà pur vero che non conta chi possiede il capitale e dove, eppure l’alfa e l’omega della società borghese, anzi di mercato, sta sempre lì, nelle relazioni di scambio tra liberi proprietari.

 


Da sinistra, Giovanni Agnelli con la nipotina Susanna in braccia ed il resto della famiglia del figlio Edoardo


 

La famiglia, o meglio le due famiglie (Boroli e Drago) che controllano il gruppo De Agostini, hanno seguito le orme degli Agnelli. Dieci anni fa hanno creato una sapa dove raggruppare le azioni dei circa 40 parenti, ma nel momento in cui la vecchia casa editrice, resa famosa dagli atlanti, è diventata una multinazionale diversificata tra giochi, tv, finanza, è stato necessario rivedere almeno altre due volte l’intero castello di carta. L’ultimo rimescolamento, il più importante, è avvenuto un anno fa quando, per chi nella famiglia aveva quote nella holding De Agostini scadeva la possibilità di svincolare parte di questi titoli. A comprare le azioni è stata l’accomandita che già controlla la De Agostini con il 72 per cento: la B&D Holding, dove i discendenti di Giuliana Boroli Drago detengono il 34,6 per cento, il ramo di Anna Boroli Drago il 20, quello di Adolfo Boroli il 22,6 e quello di Achille Boroli il 22,69. Questa soluzione ha permesso di liquidare una parte delle azioni senza alterare il controllo del gruppo che nel frattempo ha cambiato indirizzo (sede a Londra, quotazione a Wall Street e sede operativa a Las Vegas) e mestiere. Dopo l’acquisizione dell’americana Igt, dai giochi proviene un fatturato di 4,2 miliardi di euro su un totale di 5 miliardi dell’intero gruppo, secondo i dati del 2015. La De Agostini, come la ex Fiat, ormai è l’appendice di una realtà industriale sempre più americana.

 

La proprietà della Pirelli, invece, è diventata cinese, anche se la vendita alla China National Chemical Corporation (ChemChina) posseduta dallo Stato, cioè dal Partito comunista, ha lasciato al vertice Marco Tronchetti Provera (vicepresidente operativo) fino al 2021 e la società resta in Italia, quotata alla borsa di Milano. Il controllo è in capo alla società Marco Polo, due terzi della quale è in mano a ChemChina e il resto a Tronchetti attraverso la finanziaria Camfin che condivide con i russi di Rosneft. La cassaforte di famiglia si chiama Mgpm e controlla la Mtp spa la quale possiede il 55 per cento di Nuove partecipazioni che, attraverso Coinv (dove sono presenti anche Banca Intesa e Unicredit) ha il 50 per cento di Camfin. Finora la Mgpm era divisa equamente con i figli i figli Giada, Ilaria e Giovanni avuti con la seconda moglie Cecilia Pirelli, ma ai primi di luglio è entrata anche Afef Jnifen sposata nel 2001. Tronchetti ha ceduto la nuda proprietà che a questo punto è divisa in quattro parti uguali, ma ha l’usufrutto vita natural durante. Il lungo addio alla Pirelli durerà ancora cinque anni, c’è tempo per trovare un nuovo nocciolo duro nel mondo degli affari.

 


Marco Tronchetti Provera (foto LaPresse)


 

E i Moratti amici, partner, soci di lunga data? Sono anch’essi al centro del triangolo con russi e cinesi. Tre anni fa la Angelo Moratti sapa alla quale fa capo la Saras (la compagnia petrolifera di famiglia nella quale sono entrati i russi di Rosneft con il 20 per cento ) è stata divisa in due società: la prima fa capo a Gian Marco che guida le attività industriali, l’altra a Massimo alle prese con i colpi di coda della sua avventura calcistica finita con la vendita dell’Inter, sponsorizzata da Pirelli, prima all’indonesiano Tohir poi ai cinesi del Suning Commerce Group. I due fratelli non si sono separati, ma hanno viaggiato su strade parallele. Per la prima volta dal 2009 la Saras ha prodotto un dividendo fino a 90 milioni di euro diviso in parti uguali. La raffinazione, si sa, è ballerina.

 

L’incertezza sui mercati ha spinto un esponente della nuova generazione di capitalisti familiari a non cercare avventure. Mario Moretti Polegato, il patron di Geox, ha trasferito davanti al Duomo di Treviso la sede della sua sapa, la Lir della quale sono azionisti anche la moglie Licia Balzano e il figlio Enrico, vicepresidente della società che oltre a Geox controlla anche Diadora. “Avrei potuto andare a Milano, o meglio ancora a Londra – ha detto Moretti Polegato non senza polemica – Ma ho voluto dare un segnale al nostro territorio. Non andiamo via da qui”. Il vero dilemma non è geografico, bensì generazionale. Figli colpiti dalla sindrome dei Buddenbrook, figli ribelli e figli dilapidatori, figli innovatori e padri conservatori. Molti si sono arresi, come la famiglia Merloni. Vittorio che aveva portato l’azienda di elettrodomestici da Fabriano a Londra, si è spento nel giugno scorso, ma i suoi eredi due anni fa avevano già venduto la Indesit alla Whirlpool. Anche i Marzotto da tempo hanno lasciato il gruppo tessile, dilaniati da conflitti intestini. L’elenco è lungo, noto e deprimente anche per i sacerdoti schumpeteriani della “distruzione creatrice”: raramente è emerso, al passaggio di consegne, un nuovo capitalista-imprenditore.

 

I Pesenti, da sempre consustanziali al cemento e a Bergamo, dopo aver cercato fortuna in Francia, hanno venduto Italcementi ai tedeschi di HeidelbergCement perché questo oggi è un mestiere da giganti internazionali e da grandi opere mentre in Italia non si fanno nemmeno quelle piccole. Carlo, al quale il padre Giampiero ha lasciato il testimone, giura che si tratta di una metamorfosi non di un addio: continuerà a investire in Italia, sia pur da finanziere, attraverso il fondo Clessidra rimasto senza timoniere dopo la morte di Claudio Sposito. Anche i Benetton hanno cambiato pelle: dai maglioncini agli autogrill, dall’industria ai servizi regolati come autostrade e aeroporti, da Ponzano Veneto agli Stati Uniti. Chiusa l’èra degli United Colors e del flamboyant Luciano, la guida è passata nelle mani di Gilberto. Con il radicale cambiamento del core business anche la catena di controllo si era fatta lunga e tortuosa, un complicato reticolo che faceva capo a Ragione l’accomandita dei quattro fondatori: Luciano, Giuliana, Gilberto e Carlo. Dal 2009 la piramide è diventata via via più semplice e corta: Ragione ha assorbito le altre società cambiando nome e adottando quello di Edizione srl alla quale fanno capo le diverse attività con un giro d’affari che supera gli 11 miliardi di euro.

 

I Benetton si sono affidati a manager di grande esperienza, come Gianni Mion e adesso hanno deciso di aprire all’esterno anche la cassaforte. La nuova governance prevede che Edizione abbia un consiglio di amministrazione formato non più da otto membri della famiglia, ma soltanto da quattro. Dei fondatori restano Gilberto e Carlo, Giuliana sarà rappresentata dalla secondogenita Franca e Luciano dal figlio Alessandro. Gli altri quattro consiglieri sono manager di fiducia. Gilberto dice che prima o poi lascerà la presidenza a un esterno, perché “si apre un nuovo ciclo”, magari insieme a un socio internazionale.
La cassaforte in casa Del Vecchio è chiusa a doppia mandata da Leonardo. Dopo il decennio segnato da un manager come Andrea Guerra, il fondatore ha ripreso in mano le redini, anche se molti dubitano che a 81 anni possa fare tutto da solo. Dopo l’uscita del figlio Claudio (ha imboccato la sua strada a New York comprando la Brooks Brothers), Del Vecchio deve ancora trovare due soluzioni, una per la catena della proprietà, l’altra per il comando in azienda.

 

Negli anni Novanta il gruppo era controllato da due finanziarie: la Leonardo che deteneva il 56 per cento delle azioni e la Delfin con il 15 per cento nelle mani del delfino (nomen omen). Restava incerta la posizione degli altri eredi avuti da mogli e compagne diverse. Il primo matrimonio con Luciana Negro è finito con un divorzio e tre figli: oltre a Claudio anche Marisa e Paola. Dalla seconda moglie Nicoletta Zampillo nasce Leonardo Maria. Ma anche questa relazione si scioglie in tribunale. Nella vita di Leonardo entra Sabina Grossi. Altri due figli, Luca e Clemente, con una separazione (niente nozze questa volta) quando torna in scena Nicoletta con la quale Leonardo si sposa di nuovo nel 2010. Per cambiare l’assetto proprietario, fonde in Delfin le due finanziarie al comando rafforzando così il proprio controllo. Ora pensa di costituire una fondazione divisa tra tutti i figli, restano irrisolti però i problemi legali legati alla quota legittima (un quarto spetta alla vedova).

 

Del Vecchio si trova di fronte al dilemma del capo carismatico che colpisce anche due altri grandi capitalisti italiani: Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti, gli eterni rivali. L’ex Cavaliere ha da tempo sistemato il pulviscolo di finanziarie dove aveva sparpagliato le sue proprietà. Oggi possiede il 61 per cento di Fininvest, il resto è diviso in parti praticamente uguali tra i figli, sia quelli di primo letto, Marina e Pier Silvio, sia i tre avuti con Veronica Lario: Barbara, Eleonora e Luigi. L’erede vera è Marina che si è conquistata i galloni sul campo per come ha rilanciato Mondadori e per la strenua difesa dell’azienda e del padre. L’ultima battaglia è ancora in corso, contro gli appetiti di Vincent Bolloré il quale, approfittando della grave crisi cardiaca di Berlusconi, ha svelato le sue mire su Mediaset. Marina ha spinto fino all’ultimo per vendere il Milan dove Barbara ha cercato di svolgere un ruolo dirigenziale de facto. La malattia ha rimesso al centro il “consiglio di famiglia” con i cinque figli più Fedele Confalonieri, Gianni Letta e Nicolò Ghedini. L’Economist (primo azionista John Elkann) dubita che Silvio resterà al comando, ma il settimanale britannico si è sbagliato spesso.

 

Carlo De Benedetti ha trasferito a titolo gratuito ai tre figli Rodolfo, Marco e Edoardo, avuti dalla prima moglie, la Carlo De Benedetti & Figli sapa alla quale fa capo il gruppo Cir e di conseguenza anche l’Espresso. Al capofamiglia resta Romed, cassaforte non quotata che utilizza per le proprie operazioni finanziarie. A Rodolfo è andata la guida, non facile in questi anni di crisi (l’azienda energetica Sorgenia è finita in mano alle banche creditrici). Ma la mossa a sorpresa di John  Elkann ha rilanciato i De Benedetti. La fusione tra la Repubblica e la Stampa è stata gestita da Rodolfo che un tempo avrebbe voluto uscire dall’editoria. Eppure, sarà sempre CDB a tirare le fila, a pensionare e nominare i direttori, a determinare la linea politica. Ingegnere, finanziere, industriale, infine editore, il mestiere che più gli piace e, forse, più gli si addice.

 


Carlo De Benedetti (foto LaPresse)


 

I figli saranno pure piezz’e core, ma per loro non c’è spazio nel futuro di Esselunga. La famiglia Caprotti è dilaniata da un conflitto tragico, mitologico persino. La lunga saga ha riempito le cronache giudiziarie. L’ultima puntata è che il novantenne Bernardo ha vinto un’altra causa contro i suoi rampolli Violetta e soprattutto Giuseppe allontanato nel 2005 dall’azienda di famiglia nella quale era amministratore delegato. Adesso si attende solo la Cassazione. Il fondatore di Esselunga aveva tenuto per sé solo l’8 per cento della proprietà assegnando il resto a una fiduciaria controllata in parti uguali dai due figli di primo letto più Marina nata dalla seconda moglie. Senonché, cinque anni fa Bernardo ci ripensa, annulla il contratto e poi annuncia che non lascerà l’azienda ai figli. Che fine farà la catena di supermercati che ha saputo tenere in scacco le Coop rosse e i giganti francesi alla Carrefour?

 

Uno dei più importanti imprenditori italiani, Giorgio Armani, maestro di forbici e di stile, s’è interrogato per anni sulla sorte della sua azienda che non ha mai pensato di lasciare in famiglia, e non solo perché non ha figli. Ha respinto le mire della LVMH di Bernard Arnault che da tempo gli ronzava attorno. E, giunto all’età di 82 anni, ha deciso di creare una fondazione alla quale affidare il futuro di un gruppo che produce oltre 2 miliardi e mezzo di euro. La più personale delle imprese, così, diventa istituzionale, il sarto di genio s’è ritagliato un capospalla un po’ germanico. Forse non sarà il modello per tutte le occasioni, ma fa entrare aria fresca nel sistema italiano dove il mal sottile trasmesso da parenti serpenti e fratelli coltelli ha troppo spesso consumato il capitale.