Zeljko Raznjatovic detto Arkan (la Tigre): il signore della guerra nei Balcani era stato capo degli ultras della Stella Rossa. Finito il conflitto si comprò una squadra di seconda divisione, l’Obilic

Guerra di rigore

Michele Magno
Dal penalty sbagliato contro l’Argentina all’addio alla Nazionale Faruk Hadzibegic, il calcio e la dissoluzione della Yugoslavia. In nessun'altra regione europea il rapporto tra sport e potere è stato tanto stretto e perverso

“Non c’è niente di più umiliante di vedersi parare un rigore da un portiere così cretino da non capire la finta”
(Giuseppe Meazza)

 

Firenze, stadio Artemio Franchi, 30 giugno 1990: Yugoslavia e Argentina si affrontano nei quarti dei Mondiali di calcio. Del Muro di Berlino è rimasto solo qualche calcinaccio, Helmuth Kohl sta perfezionando il suo capolavoro politico, il cammino della perestrojka di Michail Gorbaciov è già in salita. Sotto la presidenza italiana della Cee, si conclude la prima delle tre fasi del piano Delors. Il trattato di Maastricht è in gestazione, la moneta unica il grande obiettivo. La Serbia è alla vigilia di un delicato referendum popolare, indetto da Slobodan Milosevic per limitare l’autonomia degli albanesi del Kosovo. Il presidente sloveno Milan Kucan e il presidente croato Franjo Tudjman propongono di trasformare la repubblica federale in una nuova confederazione, primo passo verso l’indipendenza. Tutto l’impero sovietico è scosso da potenti spinte centrifughe. Il Mondiale italiano sembra assecondare il corso degli eventi. L’Urss esce al primo turno perdendo con un suo ex satellite, la Romania. Una Germania euforica marcia spedita verso la finale. Henry Kissinger, che non si perde un match, annota sulle colonne del Los Angeles Times l’accesa rivalità tra le diverse fazioni etniche del tifo yugoslavo, all’origine di gravi atti vandalici. Nel caos di bandiere che l’occidente fatica a decrittare, accanto al vessillo nazionale con la stella rossa compaiono quello serbo con l’aquila e quello croato con la scacchiera biancorossa. Tito aveva definito la sua creatura una nazione composta da sei stati, cinque culture, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti, un solo partito politico. Nonostante una Costituzione che regolava nei minimi dettagli l’equilibrio e l’alternanza al governo tra le varie etnie, dopo la sua morte (1980) la mai sopita insofferenza verso il centralismo progettato dal padre fondatore deflagra. Sloveni e croati si dicono stanchi di mantenere i fratelli ripudiati del sud con le loro tasse. Milosevic rilancia l’idea della Grande Serbia. La Bosnia riscopre le sue radici turche. Le curve degli stadi sono le prime a fiutare il vento. Egemonizzate dalla malavita comune, diventano luogo privilegiato di reclutamento dei gruppi paramilitari.

 

Pallone e pallottole: due facce della stessa medaglia. Soprattutto in Serbia e Croazia, che vantavano la più forte tradizione sportiva e identitaria. All’ingresso dello stadio Maksimir di Zagabria c’è una targa che recita: “Ai sostenitori della squadra che su questo terreno iniziarono la guerra contro la Serbia il 13 maggio 1990”. La dedica celebra la battaglia dei supporter della Dinamo, i “Bad Blue Boys”, contro i famigerati “Delije” (eroi) della Stella Rossa di Belgrado comandati da Zeljko Raznjatovic, detto Arkan (la Tigre): un personaggio dal passato criminale, dal presente indecifrabile e dal futuro da boia. Una giornata di straordinaria follia, con decine di feriti e migliaia di scatenati ultras a darsele di santa ragione, che costa una lunga squalifica a Zvonimir Boban per aver fratturato con una ginocchiata la mascella a un poliziotto. I disordini, durati fino a notte fonda, vengono stroncati dall’intervento dei reparti antisommossa. Che lo sport sia una metafora della guerra non è una novità. Lo hanno sostenuto filosofi come Jean-Paul Sartre, teologi come Bernhard Welte, romanzieri come Nick Hornby. Ma nei Balcani lo sport non è solo una metafora della guerra. Nei Balcani la guerra è anche la prosecuzione dello sport con altri mezzi. Lo spiega in un libro avvincente Gigi Riva, un giornalista che li conosce quanto le sue tasche (“L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra”, Sellerio, 184 pp., 15 euro). Infatti, in nessuna regione europea il rapporto tra sport e potere è stato tanto stretto e perverso, e in nessuna regione europea il calcio è stato utilizzato con tanta spregiudicatezza dai movimenti separatisti come strumento di consenso. E’ così potuto accadere che un episodio apparentemente banale, un penalty fallito sul rettangolo verde, sia diventato l’emblema della disfatta di un paese. Non è stata una partita qualsiasi, quindi, quella del Franchi. Quando inizia, sugli spalti il frastuono è indescrivibile.

 

La posta in palio è alta, e si sfidano due formazioni ricche di fuoriclasse. Sopra tutti, Diego Armando Maradona e Dragan Stojkovic. Entrambi splendidi virtuosi della sfera di cuoio, solisti anarchici e di temperamento ribelle, con tendenza alla guasconeria. La gara, rude e nervosa, vive di repentini capovolgimenti di fronte. Sebbene l’Albiceleste giochi in superiorità numerica fino ai tempi supplementari, termina a reti inviolate. Si va ai calci di rigore. Il rigore è una punizione che non esisteva agli albori del football. La inventò nel 1890 un irlandese, William McCrum, per scoraggiare i ripetuti falli di mano commessi vicino alla porta. Il selezionatore del team yugoslavo, il professore di matematica Ivica Osim, consegna la lista dei cinque prescelti all’arbitro svizzero Kurt Röthlisberger e si infila nel sottopassaggio. Come l’allenatore Scipio Africanus Mussabini nel film “Momenti di gloria” (1981), preferisce capire dall’urlo della folla chi ha vinto. Dopo diversi errori dal dischetto (clamorosi quelli di Stojkovic e Maradona), l’Argentina è ancora in vantaggio di un gol. E’ di Faruk Hadzibegic, il capitano del “Brasile d’Europa”, l’ultima chance per ristabilire la parità. Il suo tiro è prevedibile e il portiere avversario, Javier Goycochea, lo respinge a pugni chiusi. Faruk è annichilito. I suoi compagni, sebbene prostrati, cercano invano di consolarlo. Dalla stampa la sconfitta viene letta come il segno di un paese allo sbando. A novembre, le prime elezioni libere in Bosnia decreteranno il trionfo del nazionalista Alija Izetbegovic e dei partiti etnici.

 

Osim e Hadzibegic non si rassegnano. C’era ancora un torneo di qualificazione agli Europei da onorare, e lì il riscatto era possibile. La batosta subita a Firenze si fa però sentire. Il consueto bilanciamento etnico degli atleti è un rebus. Fioccano le defezioni di sloveni, croati e macedoni. Si infittisce, al contrario, la pattuglia serba. Due moschettieri della vecchia guardia, Safet Susic e Zlatko Vuiovic, scelgono di appendere gli scarpini al chiodo. Per l’incontro con l’Irlanda del Nord (marzo 1991), Osim convoca allora i croati Robert Jarni (titolare) e Boban (riserva). Ma si gioca a Belgrado, perché a Zagabria ormai si rischia la pelle. Nella Stella Rossa stava intanto emergendo un giovane che farà molto parlare di sé, Sinisa Mihajlovic. E’ di Borovo Selo, un villaggio in cui pochi giorni prima erano stati trucidati dodici agenti croati. Il 29 maggio il club vince la Coppa dei Campioni battendo l’Olympique Marsiglia a Bari. Il 15 febbraio 1992 i governi della Comunità europea riconoscono l’indipendenza della Slovenia e della Croazia. Due settimane dopo il “poeta e psichiatra” Radovan Karadzic annuncia la costituzione della “Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina”. Faruk comincia a meditare un gesto eclatante. Il 25 marzo 1992 è ad Amsterdam, per un’amichevole con l’Olanda. Terminata la partita, entra negli spogliatoi e si dimette da capitano della Nazionale. Per lui non esisteva più, perché non esisteva più una patria da rappresentare. La sua decisione viene accettata con rispetto. Più tardi anche Osim farà la stessa scelta, sconvolto dalle atrocità commesse dalle milizie serbe durante l’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia moderna. Priva dei suoi leader carismatici, la Nazionale si sfascia. Quella – decimata – che a giugno atterra a Stoccolma per partecipare agli Europei non riesce nemmeno a scaldarsi i muscoli sul campo di allenamento. Una risoluzione dell’Onu ratifica l’embargo totale contro la Serbia e il Montenegro, responsabili della guerra in Bosnia. La Yugoslavia viene cacciata dal torneo e sostituita dalla Danimarca, seconda del girone (che vincerà a sorpresa la competizione).

 

Arkan in Svezia non c’era. Ricercato dalla polizia scandinava per rapina a mano armata e omicidio, rischiava l’arresto. Il suo curriculum criminale era da incubo. Dopo aver appoggiato con i suoi mercenari (le Tigri) l’armata federale nello sterminio dei croati a Vukovar (agosto-novembre 1991), aveva licenza di uccidere e saccheggiare. Si comportava ormai come un capo di stato. E’ lui a ricevere all’aeroporto di Belgrado la Stella Rossa, di ritorno da Tokyo dove a dicembre aveva strappato la Coppa Intercontinentale al Colo-Colo cileno (con due gol di Vladimir Jugovic e uno di Darko Pancev). Sotto la scaletta dell’aereo, la squadra consegna il trofeo ad Arkan. L’abbraccio più caloroso è con Mihajlovic, alfiere dell’orgoglio serbo, il più politicizzato tra i calciatori. L’adorazione nei suoi confronti non viene scalfita nemmeno dalla esecuzioni di massa di cui è protagonista in Bosnia. Adesso, giugno 1992, Arkan è all’apice del successo. Tra una scorribanda e l’altra contro i “balje”, i turchi bosniaci, conduce una vita da nababbo nella capitale, circondato da decine di guardie del corpo. Per festeggiare il terzo anniversario di fondazione delle Tigri (ottobre 1993), a Erdut – una località della Slavonia in cui spadroneggiava – ingaggia la cantante Svetlana Velikovic, ventenne regina del turbo-folk. E’ amore a prima vista. La sposerà due anni dopo nella chiesa di Zitorada, dove era nata la star. La cerimonia è sfarzosa, di stile hollywoodiano: lui in tenuta da generale della Prima guerra mondiale, lei fasciata di seta bianca.

 

Gli accordi di Dayton (21 novembre 1995) pongono ufficialmente fine all’assedio di Sarajevo. La Bosnia è sulla via della pacificazione. Arkan deve reinventarsi un mestiere. Vorrebbe comprare la Stella Rossa, ma il tentativo fallisce. Ripiega su una piccola società di seconda divisione, l’Obilic. Coi proventi del malaffare, costruisce un stadio avveniristico in vetro e acciaio. Dopo due anni si aggiudica lo scudetto. Arbitri intimiditi, avversari minacciati con le cattive maniere, calciatori rapiti se restii a firmare un contratto. Addirittura il sospetto che negli spogliatoi gli ospiti fossero sedati con gas immessi nei tubi dell’aria condizionata. Quando l’Obilic vince il titolo (1998), Arkan non può però accompagnare la squadra a Monaco di Baviera per l’esordio in Champions League. Pende infatti sulla sua testa un mandato di cattura emanato dal Tribunale penale internazionale. Il 15 gennaio 2000 viene assassinato da un poliziotto nella hall di un albergo di Belgrado. Erano appena cessati i bombardamenti della Nato sulla capitale dopo i moti del Kosovo. Arkan non serviva più, e sapeva troppo. Ratko Mladic, il generale dei serbi bosniaci che a Sarajevo voleva “stirare le menti della popolazione civile”, regista dell’eccidio di Srebrenica, ne elogia pubblicamente le virtù di guerriero e di patriota. Mihajlovic e il montenegrino Dejan Savicevic, soprannominato il “Genio”, gli dedicano un necrologio encomiastico. Con il sogno panslavista in frantumi, anche la formula trita dello sport che affratella andava in soffitta.

 

Come ricorda Riva, Faruk Hadzibegic è nato nel 1957 a Sarajevo, città simbolo delle tragedie che si sono consumate nellla seconda metà del Novecento. Venticinque anni dopo il rigore mancato, ha conservato la sagoma asciutta dell’atleta, i capelli scuri, lo sguardo curioso. Ha una bella famiglia e vive nell’agiatezza. Ha militato nel Betis Siviglia, nel Paris Saint-Germain e nel Sochaux. Non è stato un campione, ma un abile e roccioso difensore: di quelli affidabili, di quelli amati dai tifosi perché “escono sempre con la maglietta sudata”, di quelli che i mister considerano indispensabili per la compattezza della squadra sul terreno di gioco. Per intenderci, non è stato un Franz Beckenbauer, il “Kaiser” tedesco degli anni Settanta. Piuttosto un Manfred Kaltz, per restare sulle sponde del Reno. E proprio “Kaltz” era il suo nomignolo, per ruolo, facilità di falcata e struttura fisica. Capita di affidare a profili come il suo l’ultimo rigore, quello del dentro o fuori. Lo hanno sbagliato Zico e Michel Platini, Roberto Baggio e David Trezeguet, Leo Messi e Cristiano Ronaldo. Ma quello di Hadzibegic si è fatto maledizione di una terra martoriata. E’ diventato mito, leggenda del destino avverso di un popolo intero. Per questo difficilmente sarà dimenticato. “Per me la Yugoslavia – ha confessato una volta Faruk a un suo collega del Betis – era come una bella donna di cui sei innamorato”. Ne è rimasto innamorato anche quando ha visto apparire le prime rughe sul suo viso.

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