Gli islandesi praticamente migrati per tre quarti in Francia, con quelle barbe vichinghe e quei modi così fèscion di esultare ritmando coralmente il battito di mani

Porgi l'altra sciarpa

Alessandro Giuli
Gli irlandesi che ballano con i poliziotti, gli islandesi nuovi eroi, i tranquilli danesi. Ecco gli anti Hooligans. Gli irlandesi che al ritmo di “Go West” dei Pet Shop Boys s’alzano e abbassano intonando “stand-up, for the french police!”. Gli islandesi nell’immaginario delle pretese angelicate costituiscono il proseguimento dei tifosi del Leicester con altri corpi.

Amici di tutti, nemici di nessuno, colorati e imparruccati, sempre sorridenti, cantano senza tregua, ballano all’occorrenza, sono la buona compagnia per una sbronza mite dentro o fuori lo stadio. Sono i tifosi buoni, gli idoli dei Michele Serra e di ogni questurino in servizio permanente effettivo o dei tanti e troppi osservatori dilettanti in quota sbirro di complemento. Gli ultras, quelli veri, tendenzialmente maneschi ma sempre sulla base di canoni pseudo cavallereschi, incrociandoli li guardano con una fredda compassione, necessariamente distratti dall’idea di suonargliele lo stesso. Ma con che gusto? Cosa te ne fai di una vittima che ti porge l’altra sciarpa.

 

All’Europeo di Francia se ne sono visti in gran quantità fra irlandesi e islandesi, senza negarci che perfino nel mondo degli azzurri in trasferta una certa inclinazione a socializzare con chicchessia. Uno dei miei spacciatori preferiti di tuìt ultras – non il migliore, il migliore l’hanno sospeso e temo espulso di nuovo a causa dell’alto tasso di violenza da lui promossa online – ha da poco pubblicato alcuni video molto edificanti. Tipo quello con i tifosi irlandesi sulle gradinate che, la loro Nazionale appena eliminata dalla Francia, si girano qui e là per stringere le mani dei galletti e complimentarsi con dignitosa affabilità. Commenti basici di follower a corredo: “That’s the difference between real fans and the typical English fans”… “Class, you can’t buy it”. In effetti la gente di Dublino sembra non avere rivali quanto a fair play, il massimo di scostumatezza esibita in terra di Francia è stata una pisciata di massa sui muri esterni dello stadio: raccapriccio olfattivo e nulla più.

 

Meglio di loro ci sono gli irlandesi del nord, la gente di Belfast per capirci. Su di loro circola un altro video (trenta secondi intitolati “Northern Ireland fans helps Wales boy to find his father”) nel quale, riuniti nella solita disordinata orda alcolica nei pressi di un bar – il brodo di coltura dei cugini inglesi – si affaccendano per aiutare un ragazzino gallese, issato su una pensilina dell’autobus, a ritrovare il padre smarrito nel caos pallonaro. Ma questo non è un istinto da Libro Cuore: anche i peggiori ultras, hooligans o cani sciolti, l’avrebbero fatto perché, nel loro codice d’onore non scritto, sta appunto scritto che donne e vecchi e bambini vanno sempre risparmiati, se non omaggiati addirittura (anche se… quelli che penso io al posto dei nordirlandesi avrebbero sì rintracciato il padre del pischello ma poi gli avrebbero pure allentato un paio di ceffoni…).

 



 

Altro video parlante: gli irlandesi-britannici che, divisi in due ali ordinate, sotto il controllo degli sbirri francesi, al ritmo di “Go West” dei Pet Shop Boys s’alzano e abbassano di continuo intonando “stand-uuuup, for the french police… sit-doooown for the french police…”. Derisione? Complicità, un modo per confermare il valore dell’autorità attraverso il suo motteggio amichevole. Pratica che può culminare nell’accesso di demenza collettiva quando – è successo davvero – si riesce a convincere uno sbirro ad accennare alcuni passi di danza in mezzo al tumulto della tifoseria. Intanto, pochi metri più in là, uno di loro, un irlandese, sulla testa una grande maschera di cavallo in gomma non traspirante, s’impossessa di un pallone e lo calcia dritto dritto dentro una finestra scatenando esultanze mondiali tutt’intorno (didascalia: “Irish man wearing horse mask scores goal through open window in Lille and the fans go crazy”). C’entra forse il cattolicesimo, con questa programmatica vena inoffensiva? Chissà, qualche dubbio sorge se si osserva la medesima tempra mostrata dai nordeuropei continentali che cattolici non sono.

 



 

C’entra sicuramente il tasso alcolemico: oltre una certa misura non vai in bianco soltanto con le donne ma anche con madonna violenza, perfino se la sbronza ti prende male devi rassegnarti a fingere ilarità o a restartene ammutolito e triste in un cantuccio scemo con la tua bandiera sulla quale avevi scritto, e la cosa ti sembrava divertentissima, “Angela Merkel thinks we’re at work”. Cattolici, ubriaconi o fanfaroni che siano (non ricordo più chi ha detto, forse gli U2?, che gli irlandesi sono un po’ i napoletani dell’Europa, tutti cuore e canzoni… ma si vede che non conoscono le Teste Matte e i Mastiffs del San Paolo…), fatto sta che i non violenti fedeli di san Patrizio appaiono piuttosto come tifosi di rugby, ciò che peraltro sono in larga misura, alla ricerca di un teatro nel quale esibirsi. Preferibilmente nudi, perché il nudismo è un altro tratto fondativo dell’estetica guascona britannica. Si va dalle tradizionali invasioni di campo all’irish fan swimming in Lyon, stile libero in un rigagnolo di pioggia e acque reflue e non voglio nemmeno pensare a cos’altro, fino all’hooligan inglese ubriaco che tenta di scalare un palo della luce muovendosi a scatti come un verme incoraggiato dai calci nel sedere ricevuti dagli amici: è il degno cugino di quell’altro hooligan che irrompe (a quanto si sa vestito) per sbaglio in una centrale di polizia francese, sicurissimo che quella sia il suo appartamento affittato per Euro 2016: sembra una vignetta di Andy Capp disegnata da Reg Smythe, invece è tutto vero.

 

(Aneddoto monstre, vorrei dire leggendario, più o meno pertinente. Dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, accese da simpatie nordicizzanti, le tifoserie romane presero a intensificare le frequentazioni con i colleghi irlandesi e scozzesi. Vuoi per la condivisa rivalità con i perfidi inglesi. Vuoi per un comune, amorevole ma frainteso rispetto per le simbologie celtiche: religioso e funerario nella concezione dei nativi, politico-fascistoide nel caso degli italiani. I Mondiali del 1990 incoronarono quella che, sapendo come andrà a finire l’apologo, possiamo già definire una liaison: l’arrivo degli irlandesi a Roma fu accolto con aspettative smisurate, ricambiate prontamente dagli stranieri. I pub – allora i pub andavano tantissimo, fu il momento più buio dei Vini&Oli – si riempirono di gemellaggi benedetti da fiumi di Kilkenny. Narrano però fonti semicredibili che proprio la sera dell’incontro Italia-Eire avvenne un fattaccio terribile rivelativo del diverso modo di concepire l’amicizia tra ultras degenerati e tifosi non violenti. Insomma avvenne questo. Conclusa la partita, festeggiato assieme e con molto fair play l’1-0 per l’Italia, il punto di non ritorno alcolemico fu superato in misura tale che a farne le spese fu un disgraziato tifoso irlandese prodigo di fratellanza e penny: così tipico – osservato da sobrio – con il suo kilt indosso e così indifeso – rivisto dagli ebbri – nella sua virile abitudine ibernica di non indossare sotto le mutande, com’è come non è, finì violentato. La cosa provocò un grande scandalo nel piccolo mondo delle curve romane, allora inorgoglite in uno stato di grazia ultras non ancora demolito dalla repressione. Fu aperta un’indagine e il reo, ancorché mastodontico, venne accoltellato alla coscia per vendetta. Forse più per vendicare l’onore etero dei romani che non quello “perduto” dell’irlandese, la faccenda venne chiusa così. Ma non risulta che da allora gli ibernici abbiano modificato abitudini alcoliche, tendenza alla socialità e abbigliamento tradizionale anche in presenza di ammiratori italiani).

 

In questo gioco spericolato tra realtà e rappresentazione, svolge un ruolo decisivo il così detto circo mediatico impegnato a giorni alterni nella ricerca metodica dell’exemplum negativo – aggressioni, risse, episodi di anti civismo, striscioni truculenti – e del suo modello contrario, vindice di quella moralità inconcussa che si vuole far sopravvivere in ogni insieme etologico. Sicché: a diavolo, angelo e mezzo. Ed ecco spuntare alla bisogna gli islandesi, che nell’immaginario delle pretese angelicate costituiscono quasi il proseguimento dei tifosi del Leicester con altri corpi, i cui nomi finiscono invariabilmente in -sson, titolari di quella venerazione divertita e compensativa – “Portiereson passa a difensoreson che lancia il centrocampistason, cross all’attaccanteson, si sbraccia l’allenatoreson”, ha scritto Alessio Viola di Sky Tg24 – che di regola usa rivolgere alle specie animali appena scoperte in un pianeta in cui le specie tendono invece all’estinzione (altra esagerazione mediatica?).

 

In questo caso la coazione a ripetere ricalca il modello del lillipuziano trionfante, il piccolo che stende il grande… Vecchio testamento e nuove figure oleografiche da opporre agli antieroi di sempre. Gli islandesi, praticamente migrati per tre quarti in Francia, con quelle barbe vichinghe e quei modi così fèscion di esultare ritmando coralmente il battito di mani, sfamano alla perfezione il bisogno di cibo e di bevanda convenzionale. E sono divenuti così speciali che – non ci giureremmo ma quasi – ove mai fossero colti a malmenare qualche tifoso avversario, il giudice collettivo con la divisa da giornalista riuscirebbe a scovare le attenuanti giuste sulle quali edificare una difesa principesca nel foro dell’ipocrisia.

 

A guardare bene il fenomeno si potrebbe parlare di “nostalgia del rooligan”, un lascito dei primi anni Novanta dalle fattezze, non può esserci dubbio, socialmente commendevoli. Come dicono gli studiosi: “La Danimarca costituisce una nazione modello nell’ambito delle tifoserie europee […]. Il termine rooligan è un incrocio del termine Rolig (tranquillità) e il sostantivo inglese hooligan, dando dunque origine a una nuova parola, simpatica e significativa, che indica quei supporters che rifiutano a priori la violenza” (B. Peitersen, “Rooligan. Un modo di essere dei tifosi danesi”, in A. Roversi (a cura di), “Calcio e violenza in Europa”, il Mulino, 1990). Insomma il calco positivo dello stereotipo londinese con la maglietta nera “Fuck Isis” e le mani che lanciano sedie verso gli avversari. Sono soddisfazioni, in una società la cui Accademia assegna tesi intitolate “Dimensioni psicologiche del tifo calcistico; una ricerca sul Commando Neuropatico di San Cataldo”.

 

Ma i cattivi, in definitiva, che cosa dicono? In Italia, come già scritto più volte, il massimo del fair play ultras sindacabile sta nel non usare le lame e, sopra tutto se vieni da Bergamo, raccogliere da terra i nemici dopo averli ben suonati. (Confidenza no fair play. Fra le magliette in circolazione nel sottobosco da cui scriviamo è la riproduzione dorata su cotone porpora del tatuaggio che Daniele De Rossi s’è fatto incidere sul polpaccio destro: rappresenta un tackle spaccacaviglia inflitto da un difensore all’attaccante avversario. Rispetto al tattoo ha in più la scritta sempre dorata: no fair play. Il che, forse, con il mondo ultras c’entra e non c’entra).

 

Le società, le prefetture, i sindaci e i ministri competenti hanno tentato e proveranno ancora l’innesto di liturgie irenistiche, per esempio il Fair play village azzardato a suo tempo dalla Genova blucerchiata, e imitato nel 2012 a Udine. Con scarsa fortuna, visto che fu sufficiente l’arrivo di 3.000 opliti del Paok di Salonicco – te li raccomando, i greci di Salonicco – a far desistere tutti. Commento di un ultras padovano ellenizzante: “… una di quelle cose che dovrebbero far fraternizzare i tifosi, che io ritengo delle gran puttanate ma che tanto piacciono ai ‘tifosotti’ che poi si gongolano su ‘quanto bello è il modello inglese!’. Credo che chiunque abbia visto partite in Inghilterra possa confermare che puttanate del genere lì non esistono… se volevo vedere uno sport con fair play annesso, mi davo al tennis”. E che gli vuoi dire? Certo, in Italia come altrove esiste sempre (eccome se esiste) l’opzione repressiva: sradicare a colpi di Daspo e denunce, fermi lunghi e vetrate divisorie, ogni focolaio di resistenza al vecchio e nuovo verbo rooligano. In Inghilterra, regnante Lady Thatcher, sembrava ce l’avessero fatta. E invece no. Meglio applaudire l’islandese barbuto e l’ebbro ibernico.

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