Antonio Conte (Foto LaPresse)

Il peggio degli Europei? Gli italiani che trasformano in eroi i campioni che volevano punire per il calcioscommesse

Maurizio Crippa
Gli Europei sono la morte del calcio spettacolo, scatenano la violenza tribale che Hobbes aveva domato, sono solo una grande rimozione. E nessuno chiede mai scusa.

Contate, ma contateli proprio, i quindici milioni e mezzo che guardano la prima partita dell’Italia, e ai primi novanta minuti decenti degli ultimi sei anni scoprono il “contismo”, dopo un breve giro di tango col “cholismo”, felici come se Renzi avesse mollato altri 80 euro. Contateli, e chiedetevi perché l’Italia la riforma della giustizia non la farà mai – nonostante gli sforzi del grande convegno del Foglio che, mentre scrivo, va in onda all’Ara Pacis. Pacis un cazzo, in Italia: al massimo rimozione, e via andare. Contate i sei milioni e mezzo di italiani che guardano Portogallo-Islanda-uno-a-uno, e chiedetevi perché l’Europa sia fottuta. Gli Europei sono la morte del calcio spettacolo, perché giocano le Nazionali e non c’è neppure la variante esotica da inseguire, come ai Mondiali (a meno di considerare esotica l’Ungheria: forse lo è). Le Nazionali sono il peggio del calcio. Bandierine in grado di vanificare i superpoteri di Ibrahimovic, di trasformare in una mezzapunta inconcludente Cristiano Ronaldo. Trasferito in un ritiro franco-multietnico, persino Pogba si riduce a un Balotelli discolo e in ciabatte. Le Nazionali tirano fuori dagli individui il peggio della loro appartenenza alla gleba, scatenano la violenza tribale che Hobbes aveva domato. E gli stati lasciano andare in giro sguinzagliati quegli hooligan che di solito, a casa propria, tengono sotto chiave. Gli Europei negano il calcio, e dimostrano che le nazioni non esistono.

 

Poi c’è l’Italia. Intesa espressione geografica con una vocazione calcistica. Un caso diverso. Gli italiani sono l’unica entità demografica unificata da un comune algoritmo per la determinazione del codice fiscale che, quando una selezione dei propri beniamini di club infila la maglia azzurra, crede di essere una nazione, di avere un idem sentire, di voler carosellare nelle piazze di ogni borgo. Accetta di buon grado persino di sentirsi “narrare” dalla nuova (nuova) RaiSport di Gabriele Romagnoli. Cosicché, in novanta minuti hanno scoperto di amare lo spirto guerrier del sempre detestato Antonio Conte, così come generazioni di cinefili abusivi hanno adorato Rocky Balboa. E hanno trasformato Leo Bonucci in Erasmo da Rotterdam: non Beckenbauer, proprio Erasmo da Rotterdam.

 

Però c’è un ma. Che in questo baraccone di fenomeno che si ripete ogni due anni è assente ogni scatto di coscienza, ogni cambiamento consapevole, ogni volontà di autoriforma. E’ solo una grande rimozione. Rimozione del fatto che Conte lo volevano dimesso, perché processato al calcioscommesse. Assolto, nessuno ha chiesto scusa. Rimozione del fatto che quattro anni fa Bonucci venne per un attimo trasformato in un truffaldino venditore di partite. Prima di essere prosciolto dalla solita indagine farlocca di qualche pm, gonfiata dalla canea mediatica e applaudita dalle tricoteuses da curva sud. Così come a Gigi Buffon, che miracolosamente torna a essere san Luigi, non hanno mai perdonato la fama di callido scommettitore (nel 2012 lui fece dichiarazioni toste sul modo in cui i giornali diffondono intercettazioni e verbali delle indagini: il giorno dopo, i giornali scrissero che la Finanza si occupava pure di lui). Nessuno chiede mai scusa. Nessuno, dal primo dei commentatori all’ultimo dei tifosi, s’è mai chiesto che rapporto ci sia tra il giustizialismo e il non-senso da Nazionale. O se il catenaccio e gli schiavettoni siano incompatibili. L’Italia diventa per qualche partita una cosa diversa, quasi una nazione. Ma non cambia, nemmeno di fronte all’evidenza che gli offesi dalla legge sono i suoi veri campioni.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"