Una manifestazione anti nucleare in vista del referendum che si tenne l’8 e 9 novembre 1987. Fu dopo quel voto che l’Italia uscì di fatto dal nucleare

La vendetta del referendum

Stefano Cingolani
Le carpe di carta dai colori sgargianti appese per la festa di primavera, pendono inzuppate e ingrigite. L’altoparlante annuncia: “Attenzione, attenzione, gli onorevoli ospiti sono pregati di restare all’interno e di non uscire se non per cause di forza maggiore.

Le carpe di carta dai colori sgargianti appese per la festa di primavera, pendono inzuppate e ingrigite. L’altoparlante annuncia: “Attenzione, attenzione, gli onorevoli ospiti sono pregati di restare all’interno e di non uscire se non per cause di forza maggiore. Oggi e domani è prevista una ricaduta di particelle radioattive”. Quella voce in inglese e giapponese fa venire i brividi nei corridoi del grande albergo di Tokio dove sono in arrivo i capi di stato e di governo dei sette paesi più industrializzati. L’annuale vertice del G7 dovrebbe discutere di economia e di moneta, perché l’altalena del dollaro reaganiano ha messo a dura prova il Giappone e i paesi europei legati da un accordo di cambio semi-fisso. Ma l’intera agenda viene rovesciata. Pochi giorni prima, il 26 aprile 1986 (esattamente trent’anni fa, giorno più giorno meno) in un luogo remoto della remota Ucraina comunista, il reattore numero quattro della centrale Lenin si è scoperchiato, sprigionando una nube radioattiva che i venti trasportano prima in senso verticale da nord a sud poi verso est. Sulla capitale nipponica stanno scendendo gocce sottili confuse alla nebbia che copre le cime dei grattacieli e appanna le vetrate. Adesso anche noi giornalisti, increduli più che scettici, ci rendiamo conto che si tratta di pioggia nucleare.

 

La tragedia di Chernobyl è un punto di svolta nella storia dell’ultimo Novecento. Le autorità sovietiche che prima hanno cercato di coprirla, l’hanno poi gestita come prova di trasparenza, di glasnot, la parola d’ordine lanciata da Mikhail Gorbaciov nel tentativo di riformare un sistema ormai marcio. In Italia, anche grazie al referendum del 1987, ha accompagnato la fine del governo guidato da Bettino Craxi, primo presidente del Consiglio socialista. Senza altre catastrofi tecnologiche o naturali, un nuovo referendum, quello del 17 aprile, viene usato per un’altra resa dei conti politica, questa volta contro Matteo Renzi.

 

Craxi era arrivato in Giappone prima che cominciasse il G7, per una lunga visita di stato accompagnata dall’incontro con il vecchio imperatore Hirohito, un testimone del secolo, nel bene e nel male. Ma i consiglieri del presidente non facevano altro che inondarlo di dispacci allarmati dall’Italia. Bisognava affrontare una emergenza emotiva che rischiava di diventare emergenza sanitaria soprattutto nelle zone alpine. “Non mangiate funghi, non raccogliete insalata, lavate tutto con l’amuchina”, i consigli, più o meno strampalati, si diffondevano sui giornali e in tv. Intanto, i radicali e i Verdi che nel 1985 avevano presentato le loro liste alle regionali, lanciavano una campagna contro le centrali della morte, innalzando la bandiera del sole che ride. Nel Psi la componente modernista della cerchia craxiana era la più vicina alla sensibilità neo-ecologista e cominciava a farsi sentire. Craxi, esponente della corrente nenniana, aveva una inclinazione industrialista, ma era un politico troppo accorto per non capire subito dove avrebbe portato l’onda di Chernobyl.

 

Passano pochi mesi, il tam tam diventa movimento e il movimento referendum. Al partito radicale e al partito socialista si unisce anche il partito liberale che era sempre stato il rappresentante della Confindustria. Curioso, anzi paradossale, però Marco Pannella ha convinto Craxi e i suoi alleati minori che si sta presentando l’occasione per una spallata politica alla Dc e per isolare ancor più il Pci, imbarcando tutte le forze laiche. Ciriaco De Mita, intellettuale della Magna Grecia secondo Gianni Agnelli, ma meno sprovveduto politicamente dell’Avvocato, tenta di bloccare l’operazione facendo mancare la fiducia al governo. Craxi si dimette il 27 giugno, però la macchina del referendum ha un’accelerata. “Atomo sì, atomo no”, la scelta diventa un pronunciamento su chi comanda in Italia e sul residuo potere di una Dc che resiste alla competizione del polo laico-socialista. Politique d’abord. Del resto, oggi il referendum del 17 aprile non è più un sì o un no alle trivelle, ma una prova di forza contro Matteo Renzi.

 

Anche allora c’erano blocchi di interesse socio-economico da difendere. Il Psi tutelava l’Eni (presidente Franco Reviglio) la quale aveva il petrolio e soprattutto il gas, quel metano che “ti dà una mano”. Alla Dc faceva capo l’Enel che scommetteva sul piano elettronucleare. Al Pci l’Ansaldo di Genova che produceva le centrali atomiche. Come si vede, il gioco delle lobby non è nato ieri ed è sempre stato, tutto sommato, ben individuabile se non proprio trasparente.

 

L’8 novembre 1987 il voto popolare con circa l’80 per cento dei sì sancisce la fine dell’uso dell’energia nucleare per scopi pacifici in Italia. Anche democristiani e comunisti, originariamente filo-nucleari, hanno messo le vele al vento, annacquando la spallata laica. Tramonta così, tra paure popolari e manovre di palazzo, un primato teorico e tecnologico. Nel 1966 l’Italia era il terzo produttore al mondo dopo Stati Uniti e Inghilterra. Primo paese in Europa a mettere in funzione una centrale elettronucleare, quella di Latina nel 1963, e anche il primo a spegnere tutti i quattro impianti costruiti a tempo di record in meno di dieci anni.

 

Quel referendum apre una nuova fase nella strategia energetica italiana, un’èra instabile e costosa. Sì, perché paghiamo ancora nella bolletta elettrica, sotto la voce A2, per lo smantellamento dei reattori: si tratta di 350 milioni di euro l’anno (questo il conto del 2015). Ma i contribuenti hanno già versato le penali alle aziende, anche se erano di stato: sei miliardi e 210 milioni di euro all’Enel e oltre un miliardo e mezzo alle ditte appaltatrici. I consumatori hanno subito la differenza tra il prezzo del kilowattora prima e dopo. La mancata produzione di energia elettrica da fonte nucleare, che nel 1986 ebbe un picco pari al 4,5 per cento del totale, è stata compensata con l’aumento dell’utilizzo di combustibili fossili, in particolare carbone e gas ma anche olio combustibile, e con un ulteriore incremento delle importazioni, cresciute di un terzo a parità di consumi. C’è anche una ricaduta tecnologica e industriale. L’Italia nucleare, quella dei ragazzi di via Panisperna e dei loro allievi, si disperde. L’Ansaldo sopravvive a stento, ma in realtà è il residuo di un glorioso passato.

 

Gli italiani hanno scelto, probabilmente sono stati contenti così e hanno pagato volentieri. Sorge il dubbio, in realtà, che non tutti fossero pienamente consapevoli dei costi. Un sospetto che si ripropone anche oggi a proposito delle trivelle o meglio delle piattaforme che estraggono gas e in minor misura petrolio nei mari italiani. Una nuova spallata per chiudere l’epoca fumosa dei combustibili fossili e aprire quella luminosa delle risorse pulite, sole, vento, acqua? Forse, per ora un crogiuolo di vendette politiche. Senza calcolare che per produrre la stessa energia di una centrale termica da un milione di chilowatt dovremmo installare 60 milioni di metri quadri di pannelli fotovoltaici; anche supponendo che costino 2.500 euro per chilowatt, il conto finale sarebbe di 15 miliardi. Inoltre si tratta di energia intermittente, legata al ciclo del giorno e della notte e alle condizioni meteorologiche. Con l’eolico le cose non cambiano, ci sarebbe bisogno di circa cinquemila aerogeneratori da mille chilowatt di potenza ciascuno per ottenere una energia legata ai capricci del vento. In entrambi i casi, saremo costretti a mantenere in rotazione almeno l’ottanta per cento della potenza fornita dalle energie non rinnovabili per intervenire prontamente quando manca la potenza delle rinnovabili.

 

Il primo referendum contro l’atomo per usi civili ha preceduto di sei anni l’incidente di Chernobyl. Pionieri del No Nuke sono stati gli svedesi. Il voto avvenne nel 1980; gli elettori a grande maggioranza scelsero di chiudere le centrali esistenti. Non subito, attenti, bensì entro il 2010. Trent’anni dopo, sotto l’incalzare della grande crisi economica mondiale c’è stato un ripensamento. Nel 2010 il Parlamento di Stoccolma ha fatto marcia indietro votando una legge che consentiva la costruzione di nuove centrali. Poi l’11 marzo 2011 un maremoto allaga l’impianto di Fukushima e tutto cambia di nuovo. Fino ad allora la Svezia aveva abbandonato una sola centrale, quella di Barseback davanti alla Danimarca, la più vecchia. Oggi ci sono dieci reattori attivi e tre spenti. La quota di energia elettrica dal nucleare è del 34 per cento. Il primo ministro socialdemocratico, l’ex sindacalista Stefan Loefven, promette che farà di più anche prima dei tempi tecnici previsti. I verdi, del resto, sono al governo. I socialisti sono sempre stati nuclearisti, ancor più il sindacato, unica cinghia di trasmissione del partito. Ma anche nel paradiso nordico la politica s’è fatta fluida e gli steccati ideologici sono caduti.

 

Il mandato popolare in Italia non vietava in modo esplicito la costruzione di nuove centrali, né imponeva la chiusura di quelle esistenti o in fase di realizzazione, ma abrogava i cosiddetti "oneri compensativi" spettanti agli enti locali sedi dei siti individuati per la costruzione di nuovi impianti nucleari, nonché la norma che concedeva al Cipe di scegliere i siti stessi in presenza di un mancato accordo in tal senso con i comuni interessati. A chi spetta la politica energetica? Oggi come allora lo scontro tra governo centrale e poteri decentrati imprime una impronta forte al referendum. Nessun governo e nessun partito ha avuto finora la forza di fare come gli svedesi: rispettare la volontà popolare, ma anche le compatibilità e gli interessi di fondo della nazione. Tra il 1988 e il 1990 Goria, De Mita e l’Andreotti VI che si sono alternati a Palazzo Chigi staccarono la spina alle centrali ancora funzionanti di Latina, Trino e Caorso. Bisogna dire che Latina e Trino erano praticamente a fine vita, essendo state progettate per poter funzionare per 25-30 anni dall’accensione del reattore, dunque l’unico impianto chiuso con grande anticipo fu quello di Caorso. E’ stato interrotto anche il cantiere della centrale di Montalto di Castro la cui area verrà poi destinata alla centrale a policombustibile Alessandro Volta.

 

Quando, tra il 2009 e il 2010, si riapre un po’ ovunque il dibattito sul ritorno all’atomo di pace, il governo Berlusconi stringe un accordo con la Francia, nostro principale fornitore di elettricità, per rimettere in moto il programma nucleare. Senonché, Antonio Di Pietro con la sua formazione politica, l’Italia dei Valori, il 9 aprile 2010 organizza un altro referendum abrogativo. Dichiarato ammissibile dalla Corte costituzionale il 12 gennaio 2011, a inizio marzo viene proposta come data per lo svolgimento del referendum il 12 e 13 giugno 2011. Ma l’11 marzo c’è Fukushima. Il Consiglio del ministri, con un decreto legge, stabilisce una moratoria di 12 mesi. Il referendum si svolge regolarmente con un quorum di circa il 54 per cento di votanti e una maggioranza “no nuke” di oltre il 94 per cento. E’ la fine. Non ci sarà più nessun ripensamento; ma attenzione, dal nucleare l’Italia non è uscita. Intanto ci sono 27 centrali nell’arco alpino e importiamo dai reattori francesi l’energia elettrica che forma il cosiddetto carico di base, lo zoccolo duro che dovrebbe evitare black out. Oggi utilizziamo il nucleare (importato) tre volte più del 1985 quando usavamo quello nazionale.

 

Dal 1999 tutti i siti delle centrali spente sono gestiti da una società ad hoc, la Sogin, il cui compito è smontare gli impianti in piena sicurezza, collocare le scorie e il materiale radioattivo, bonificare i siti e prepararli per un utilizzo diverso. In tutti questi anni non è stata smantellata una sola centrale. Eppure nel 2012 il governo ha dato il via libera per gli impianti di Trino e del Garigliano. La Sogin, che ha 1.350 dipendenti, può contare su un flusso annuo di risorse pressoché continuo. A differenza da quel che avviene in Svezia o in Germania, dove il decommissioning (come viene chiamato lo smantellamento) o è stato ripagato con un fondo accantonato mentre le centrali erano in funzione, oppure ha un budget fisso. Nel rapporto che l’Unione europea ha redatto, nella tabella dedicata all’Italia, quando si arriva al costo c’è scritto “non disponibile”. Non solo a Bruxelles, ma nemmeno a Roma, nessuno lo sa. Dal 2001 al 2011 è stato speso un miliardo e 900 milioni di euro. Dal 2012 gli oneri complessivi del programma sono stimati in 5 miliardi di euro: 1,8 per lo smantellamento; un miliardo per riprocessare il combustibile nucleare (anche se non verrà mai più utilizzato); 800 milioni per conferire tutti i rifiuti al deposito nazionale e 1,4 miliardi di euro per il funzionamento della società, il personale e la manutenzione degli impianti. La Sogin ha un management ballerino: si sono succeduti cinque presidenti e amministratori delegati, un commissario e due vicecommissari. L’attuale ad, Riccardo Casale, in ottobre aveva rimesso il suo mandato, poi quando l’azionista, cioè il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, ha accolto le dimissioni, le ha ritirate.

 

Le aree idonee a ospitare il deposito nazionale dei rifiuti nucleari non sono state ancora scelte. L’operazione è complessa, si tratta di smaltire 75 mila metri cubi di rifiuti a medio bassa attività per spegnere i quali occorrono 300 anni, e 15 mila metri cubi ad alta attività (perché la loro radioattività decada servono centinaia di migliaia di anni). L’anno scorso la mappa è stata inviata ai ministri competenti, ma il governo prende tempo. Occorre il consenso delle popolazioni locali, c’è bisogno di un’ampia consultazione e di una valutazione razionale dei costi e dei benefici. Già. Con l’aria che tira sulle trivelle, con la Puglia contro la Basilicata per ottenere la propria fetta di royalty petrolifere, con i barbarici relitti della peggior propaganda catastrofista, e con i magistrati pronti a fermare qualsiasi lavoro prima di aver accertato un qualsivoglia reato, si capisce perché Matteo Renzi faccia melina.

 

Eppure c’è del lavoro da fare. Il deposito nazionale impiegherebbe 1.500 persone, mentre ne servono 750 per l’esercizio ordinario. Secondo il rapporto della Ue, lo smantellamento delle centrali in Europa è una torta da 253 miliardi di euro. I tecnici italiani sono molto bravi e la Sogin è un’ottima candidata. Ma dopo il No Tav, il No Triv, il No Wind (in Sardegna), si può scommettere che è già in agguato un referendum No Decom(missioning). Continuiamo così, verso quel che Romano Prodi ha chiamato “un suicidio nazionale”.