Benito Mussolini negli anni della Prima guerra mondiale. Partito per il fronte nel settembre 1915, vi rimase fino al febbraio ’17, quando fu ferito in addestramento dallo scoppio di una granata

L'altro Mussolini

Roberto Raja
Leader socialista e bersagliere al fronte: torna in libreria il diario di guerra. La trincea, gli uomini e il comando, il fascismo che verrà

“E’ molto interessante da studiare Il diario di guerra di B. Mussolini per trovarvi le tracce dell’ordine di pensieri politici, veramente nazionali-popolari, che avevano formato, anni prima, la sostanza ideale del movimento (…)” (Antonio Gramsci, “Quaderni del carcere”, 1934)

 

Il 13 settembre 1915, quando parte per la “linea del fuoco”, aggregato all’11° Reggimento Bersaglieri, il soldato semplice Benito Mussolini ha trentadue anni. Un metro e 69 di altezza, capelli neri, viso lungo, naso grosso, mento sporgente, occhi neri: l’aveva classificato così nel 1903, al momento dell’arruolamento, il foglio matricolare del distretto militare di Forlì. A guerra iniziata, i capelli disegnano ancora un arco sottile sulla nuca e due baffi corvini, contrassegno evidente della fisionomia maschile dell’epoca, marcano il volto scavato. Gli occhi, solo gli occhi per un momento, fissi sull’obiettivo del fotografo, sembrano preludere a una torva ossessione. L’anagrafe e le immagini di un secolo fa danno niente più di una traccia anticipatrice: questo trentenne partito per la Grande guerra che scrive un suo diario dal fronte – tornato ora dopo tanti anni in libreria, e in cinque diverse edizioni – non è ancora l’altro Mussolini. Ma non è nemmeno un anonimo fantaccino. La sua ascesa è iniziata solo tre anni prima, al congresso socialista del luglio 1912 a Reggio Emilia, quando s’è imposto come capofila della corrente massimalista che ha assunto la guida del partito ottenendo l’espulsione dei riformisti Bissolati e Bonomi. Per quanto le foto seppiate facciano sembrare tutti comunque un po’ più vecchi di quanto in realtà fossero, aveva cominciato presto: 29 anni appena compiuti, allora, mentre i principali esponenti socialisti superavano i 50. Poco dopo gli hanno affidato l’Avanti! e con la sua direzione il giornale ha raddoppiato in due anni le vendite, arrivando a punte di 100.000 copie. In crescita anche il partito, che ha visto aumentare da 28.000 a 45.000 gli iscritti. Quando scoppia la guerra in Europa, Mussolini è già leader. “Il beniamino delle ringiovanite schiere socialiste”, “l’uomo rispettato da tutti, entro il partito”, riconosce uno degli avversari riformisti. E’ ammirato da un altro giovane rivoluzionario, Antonio Gramsci (che molti anni dopo, dal carcere fascista, avrà parole di apprezzamento proprio per il “Diario”) e da un democratico come Gaetano Salvemini, il quale lo loda, profetico a sua insaputa, come uno di quei politici che “operano come parlano, e perciò portano in sé tanta parte dei destini d’Italia”.
Ma arriva, appunto, la guerra, e nell’Italia alla finestra si inasprisce il conflitto tra neutralisti e interventisti. Al quale però, come riconoscerà Mussolini “sul campo”, restano estranee le masse di una nazione ancora profondamente contadina.

 

Io non ho mai sentito parlare di neutralità e di interventismo. Credo che moltissimi bersaglieri, venuti da remoti villaggi, ignorino l’esistenza di queste parole. I moti di maggio non sono giunti fin là. A un dato momento un ordine è venuto, un manifesto è stato affisso sui muri: la guerra! E il contadino delle pianure venete e quello delle montagne abruzzesi hanno obbedito, senza discutere (2 novembre 1915).

 

Neutralità o intervento: è un travaglio che Mussolini incarna fino in fondo, lui che militarista finora non è mai stato (a vent’anni ha subito anche una condanna, poi condonata, come disertore): nell’estate del ’14 si fa paladino della “neutralità assoluta” sulle colonne dell’Avanti!, per poi virare in autunno e sostenere la “neutralità attiva e operante”, giustificando di fatto un intervento dell’Italia “se si dimostrasse (…) che può affrettare la fine della carneficina orrenda”. Il partito non lo segue, anzi lo espelle per indegnità morale. Mussolini lascia la direzione dell’Avanti! ma di lì a poche settimane, il 15 novembre, è di nuovo in edicola con un nuovo giornale, Il Popolo d’Italia. L’articolo di fondo del primo numero, “Audacia!”, si conclude in modo perentorio, incitando all’azione i “giovani d’anni e giovani di spirito” con “una parola paurosa e fascinatrice: guerra!”. La conversione all’interventismo senza se e senza ma gli costa cara: prima ancora che anche l’Italia entri in guerra, e nonostante il successo del nuovo giornale, Mussolini perde molto del suo prestigio e del suo mito politico almeno tra le masse popolari, che vedono in lui il traditore venduto alla borghesia.

 

Naturalmente, se a sinistra si è spezzato l’idillio, Mussolini trova nuovi consensi in altri ambienti politici e culturali, non sulla base di un progetto politico ma sull’assonanza con il grido che chiudeva quel suo primo fondo sul Popolo d’Italia e che più in là, nelle turbolente giornate del maggio 1915, s’inferocisce sulle resistenze del Parlamento alla guerra, fino a fargli scrivere che “per la salute d’Italia bisognerebbe fucilare, dico fucilare, nella schiena qualche dozzina di deputati”, e a fargli definire il Parlamento “il bubbone pestifero che avvelena il sangue della Nazione. Occorre estirparlo”.

 

Vuoi per la divisa che indossa, vuoi per calcolo politico, o per il fatto stesso che il conflitto tra neutralisti e interventisti è stato ormai superato dai fatti, l’autore del “Giornale di guerra” è un altro Mussolini ancora. Testimone dal fronte assai poco retorico, men che aggressivo, soldato ligio agli ordini e al sistema, spesso benevolo. Ha dovuto aspettare qualche mese per poter raggiungere la linea del fuoco, come desiderava da subito, prima destinazione l’Alto Isonzo. In quei pochi mesi ha scritto ancora sul Popolo d’Italia: contro la Germania (è quello il nemico da battere, è lì il senso vero della guerra, l’Austria e Trento e Trieste non esauriscono le ragioni per farla), contro i socialdemocratici tedeschi che si sono piegati alle mire espansionistiche del Kaiser, contro la borghesia italiana che latita nella partecipazione al prestito nazionale. In quelle frenetiche settimane lo scontro con gli ex compagni di partito si è incanaglito: lo hanno accusato di aver incassato finanziamenti stranieri per la sua testata (vero) e sbeffeggiato per aver predicato la guerra ed essere ancora comodamente seduto alla sua scrivania (in realtà era consueto che i volontari non venissero chiamati immediatamente alle armi). L’esigenza di rispondere a questi attacchi, di certificare la propria coerenza e di ripristinare, diremmo oggi, la propria immagine è forse il motore primo che lo spinge a scrivere un diario dalla trincea. E a pubblicarlo sul suo giornale. Le prime pagine uscirono il 28 dicembre di quello stesso 1915, le altre seguirono nel corso dei quattordici mesi successivi, fino al 23 febbraio 1917, quando Mussolini rimase ferito in diversi punti del corpo dallo scoppio di una granata durante un tiro di addestramento. Incidente che pose fine alla sua esperienza al fronte.

 

Il diario di guerra di Mussolini nasce dunque “immediatamente e vistosamente pubblico”, come scrive Mario Isnenghi nell’introduzione alla recente edizione del Mulino (“Il mio diario di guerra”, 226 pp., 18 euro ). Gli si affidano sì, di passata, alcune confessioni, che in parte saranno successivamente emendate perché in conflitto con gli sviluppi del personaggio pubblico (è il caso di certe note ricorrenti di sapore anticlericale). Ma l’intimità non può che essere sorvegliata dall’idea della pubblicazione. E così gli eventuali giudizi sugli uomini, sui singoli, generalmente velati da un senso corale-collettivo della vita al fronte.

 

Tra ufficiali e soldati regna la più cordiale camaraderie. La vita di rischi continui lega le anime. Più che superiori, gli ufficiali mi appaiono come fratelli (19 settembre 1915).

 

Niente a che vedere con l’icasticità di un Gadda, interventista come lui, che nel suo “Giornale di guerra” scrive di un “antipaticissimo, pretensioso, presuntuoso cap. Niccolosi” o del generale Cavaciocchi, “che deve essere un perfetto asino”; né con il sarcasmo di un Paolo Monelli, convinto che la guerra – appuntava nel maggio 1916 sul suo taccuino, divenuto poi “Le scarpe al sole” – “non la conosce l’ufficiale di stato maggiore che viene a cercarsi una medaglia. Quando ha appetito o fifa o soddisfazione del lavoro compiuto tira fuori l’orologio e dice: ‘E’ tardi, debbo andarmene’”. E tuttavia, sempre in quest’ambito, certe osservazioni di Mussolini, sia pure giocate sul filo del non detto, hanno una maggiore coloritura politica.

 

In definitiva il “morale” dei soldati dipende da quello degli ufficiali che li comandano. Non è il caso – ora – di dire ciò che si è fatto per tenere alto il “morale” dei soldati italiani e ciò che non si è fatto. Verrà il tempo anche per questo discorso (6 aprile 1916).

 

Riproposto più volte nel corso del ventennio fascista, il Diario o Giornale di guerra, come è stato alternativamente chiamato, nel 1961 era stato inserito in un volume dell’“Opera omnia” di Mussolini e qui dimenticato. Il fermento editoriale attuale, propiziato dalla scadenza dei diritti d’autore, è cominciato alla fine dello scorso anno con l’uscita per due piccole case: le Edizioni di Ar di Franco Freda (sì, proprio lui) e la Biblioteca dei Leoni (a cura di Denis Vidale). Più recenti, accanto al volume del Mulino, il “Giornale di guerra 1915-1917”, a cura di Mimmo Franzinelli per la Libreria Editrice Goriziana, e il “Giornale di guerra 1915-1917”, con l’introduzione e un ampio apparato di note di Alessandro Campi, per Rubbettino.

 

Vi sono comunque ragioni più profonde, al di là della faccenda dei diritti, che spiegano perché questo testo non sia più stato dato alle stampe prima e perché ora lo si ritenga da più parti degno di pubblicazione. Occuparsi della figura di Mussolini, anche del Mussolini prefascista, a molti storici sembrava e in parte sembra tuttora inopportuno. Ma il “Diario” oggi, al netto delle esaltazioni propagandistiche del regime e dei tabù culturali del lungo dopoguerra, si presenta come “uno dei testi più incisivi della letteratura di guerra”, assicura da un pulpito non sospetto Isnenghi. “Un racconto in presa diretta dotato di una freschezza che manca a molta di quella letteratura, rielaborata in fase successiva. Era giusto sottrarlo all’area nostalgica neofascista per restituirlo agli italiani in forma critica”, ha detto Campi in un’intervista. Esemplare, in questa rivalutazione, il percorso dello stesso Isnenghi, autore fra l’altro de “Il mito della Grande guerra”, testo fondamentale e innovativo nell’approccio storiografico alla Prima guerra mondiale. Benché basato in larga parte su fonti letterarie e memorialistiche, il libro nella sua prima edizione del 1970 ignorava del tutto il diario di Mussolini, con cui lo storico ammette di “aver cominciato a fare pubblicamente i conti” solo a metà degli anni Ottanta. Nell’89 le sue riflessioni integrano una nuova edizione del “Mito della Grande guerra”, nel ’96 sono approfondite nel saggio “L’Italia del fascio” (“Diario in pubblico del Duce nascente”) e oggi accompagnano la pubblicazione del testo mussoliniano.

 

Nell’autore del “Diario” Isnenghi vede “un bersagliere fra i tanti, monumento alla disciplina sociale consacrata dalla divisa, e nel contempo il direttore del quotidiano politico cui si intitola la forzatura che ha sconvolto i percorsi e i perimetri del movimento operaio e messo a rumore lo scenario politico del 1914-15”. E nel pullulare di incontri in trincea “ciascuno riconosce e testimonia per l’altro, il protagonista si integra nel coro, il coro lo riconosce protagonista”.

 

Siamo da dodici ore in marcia, con una sola tazza di caffè nero nel ventre. Nessuno è rimasto indietro. (…) Un bersagliere mantovano mi avvicina e mi dice: “Signor Mussolini, giacché abbiamo visto che lei ha molto spirito (coraggio) e ci ha guidati nella marcia sotto le granate, noi desideriamo di essere comandati da lei…”. Sancta simplicitas! (17 settembre 1915).

 

[**Video_box_2**]Il generale parla coi bersaglieri da uomo a uomo. Ciò gli procura vive simpatie. E’ bene parlare spesso a quest’umile gente, cercare spesso di scendere verso queste anime semplici e primitive, che costituiscono ancora, malgrado tutto, uno splendido materiale umano. (…) Tre bersaglieri si fermano dinanzi alla nostra tana, un po’ esitanti. Un caporal maggiore mi dice: “Scusi la nostra curiosità. Lei è…”. “Sono io”. I tre commilitoni mi stringono la mano, siedono come possono, e iniziano un’amichevole conversazione (12 dicembre 1916).

 

Era lui. Anche lui, dal 1° marzo di quel secondo anno di guerra, caporale. Ma niente di più. Governo e stato maggiore gli sbarrarono il passo verso la scuola allievi ufficiali: per quanto diplomato e direttore d’un giornale, quel Mussolini era pur sempre una testa calda. “Questa doppia identità – essere contemporaneamente protagonista e coro, leader e gregario, attore politico trainante e soldato nella massa – è la realtà e l’ideologia di questa particolarissima messa in scena di sé”, scrive ancora Isnenghi. Anche se non ha smesso di essere “l’uomo dell’antitesi” negli articoli del Popolo d’Italia, nel “Diario” Mussolini “si propone visibilmente di riposizionarsi cambiando di passo e volgendo in direzione di una sintesi”. In queste pagine – scriveva lo storico nell’“Italia del fascio” – “il dibattito e la lotta ci sono già stati, sono passati in giudicato, e ci si muove in una prospettiva postinterventista, di governo delle cose e degli uomini”. Nell’autoritratto dell’uomo nuovo, già nella trincea, dunque, un preludio al nuovo ordine che verrà, una prefigurazione del futuro capo del fascismo? Campi – lo scrive nell’introduzione al “Giornale di guerra” (Rubbettino, 344 pp., 16 euro) – non è d’accordo: quando scrisse il suo diario al fronte, Mussolini non aveva tanto l’intenzione di “costruirsi un’aura da eroe e da capo”, “era consapevole di aver rotto con il socialismo, ma ancora non sapeva ciò che sarebbe diventato: quali precise direzioni avrebbe assunto il suo cammino politico e quali approdi esso avrebbe raggiunto”.

 

Obiezione accolta. E tuttavia, quando pure non fosse ancora un disegno politico o l’esibizione consapevole di un leader e di un’ideologia in divenire, quel processo di trasformazione che coinvolge l’uomo e la massa si avverte comunque in queste pagine. Come molti altri diari di quegli anni, il “Giornale di guerra” parla della vita in trincea, del freddo e della pioggia, di sacrifici, di attese sofferte sotto le bombe (non di assalti, però: l’urgenza drammatica della battaglia appare lontana). Guarda agli uomini e alla nazione – “Questa guerra è il grande crogiolo che mischia e fonde tutti gli italiani. Il regionalismo è finito” – e con uno stile scarnificato parla di morte – “Giungono, col vento della sera, ondate di tanfo di cadaveri. Nella selletta ci sono due cimiteri: uno austriaco e l’altro italiano. Ieri una grossa granata disseppellì alcuni morti. Macabro”. Ma alla fine parla, inevitabilmente, anche del suo autore.

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