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l'udienza

Il giudice Tremolada al processo contro i pm del disastro Eni-Nigeria: “Una ferita aperta”

Ermes Antonucci

Al tribunale di Brescia l'udienza con De Pasquale e Spadaro imputati. La testimonianza del presidente del consiglio giudicante che ha demolito il maxi processo a carico del cane a sei zampe

Brescia. “Ci sono rimasto male, molto male, ancora oggi la cosa mi riferisce. Ogni volta che cerco di dimenticare, non riesco”. Con queste parole, quasi rotte dalla commozione, il giudice Marco Tremolada (presidente del collegio giudicante che nel 2021 demolì il maxi processo Eni-Nigeria, assolvendo tutti gli imputati) ha commentato ieri davanti al tribunale di Brescia il tentativo che i pm di quel processo, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro – oggi imputati con l’accusa di rifiuto di atti d’ufficio – fecero a ridosso della sentenza per far ascoltare in aula Piero Amara, il quale avrebbe voluto accusare proprio Tremolada di essere “accondiscendente” nei confronti della difesa di Eni. Un colpo basso da parte dell’accusa che non andò a segno, ma solo per casualità, visto che il collegio giudicante respinse la richiesta dei pm ritenendola generica e stabilendo che non ci fosse motivo di ascoltare Amara. 

Dunque alla fine Amara non venne sentito, anche se la vicenda, ripete Tremolada oggi, “rimane una ferita aperta”. Anche perché, contemporaneamente, l’allora capo della procura di Milano Francesco Greco e il procuratore aggiunto Laura Pedio trasmisero le dichiarazioni di Amara su Tremolada ai colleghi di Brescia (competenti sui magistrati milanesi), che aprirono un’inchiesta, poi archiviata in virtù dell’inattendibilità di Amara.

Nel corso della sua testimonianza ieri Tremolada ha confermato quanto dichiarato in precedenza durante le indagini, cioè che nel corso del processo Eni venne lasciato all’oscuro da parte dei pm De Pasquale e Spadaro dei documenti dai quali emergevano le manovre di Vincenzo Armanna, grande accusatore di Eni valorizzato dalla procura, per depistare l’andamento del processo.  

Si tratta, in particolare, di una chat in cui emergeva il fatto  che Armanna aveva corrisposto 50 mila dollari a due testimoni che avrebbero dovuto confermare le sue accuse contro Eni, altri messaggi in cui Armanna indottrinava un altro testimone sulle risposte da fornire agli inquirenti, la manipolazione e la falsificazione di altre conversazioni in cui comparivano frasi attribuite all’ad di Eni, Claudio Descalzi, e altri manager della compagnia petrolifera. 

C’è poi il nodo legato al mancato deposito da parte dei pm di una videoregistrazione risalente al 2014 in cui Armanna, prima della denuncia di corruzione nei confronti di Eni, esprimeva propositi ritorsivi nei confronti dell’azienda, con l’ormai celebre frase “farò arrivare una montagna di merda”. Una chiara prova favorevole alle difese, ma che non venne inspiegabilmente depositata dai pm. “L’ho trovata una scelta sorprendente, come il collegio ha poi anche sottolineato nelle motivazioni – ha affermato Tremolada –. Armanna accusava solo altri e non se stesso. Ma un dichiarante deve avere un’attendibilità intrinseca ed estrinseca. E quel video negava la sua attendibilità”. In udienza l’avvocato Pasquale Annicchiarico, legale dell’ex viceconsole onorario in Nigeria Gianfranco Falcioni, tra gli imputati assolti nel processo Eni (oggi parte civile), ha ricordato come De Pasquale e Spadaro fossero a conoscenza dell’esistenza di questo video già nel 2017. Il 12 aprile 2017, infatti, il procuratore Francesco Greco ricevette il video dai colleghi romani che si stavano occupando di un altro processo e lo trasmise via email a De Pasquale. Quest’ultimo, di origini messinesi, inoltrò l’email a Spadaro con una frase di accompagnamento in dialetto siciliano: “A ‘zzuccati st’ovu”, cioè “mettiti in testa questo uovo”. Tradotto: beccati questo guaio. All’epoca il processo Eni-Nigeria era ancora in fase di udienza preliminare. Solo nel luglio 2019 uno dei difensori degli imputati trovò quella videoregistrazione depositata in un altro procedimento. 

Su tutti questi aspetti, Tremolada ha confermato che, benché si fosse a ridosso della conclusione del processo, se la procura avesse chiesto di acquisire le chat di Armanna il collegio giudicante lo avrebbe fatto e “la conoscenza di queste chat avrebbe favorito la stesura delle motivazioni della sentenza”. 

Nell’udienza precedente, il pm milanese Paolo Storari, che avvisò (invano) i suoi colleghi delle calunnie di Armanna e delle chat falsificate, ha dichiarato: “De Pasquale e Spadaro dissero con chiarezza, in riunione con Greco e Pedio, che Tremolada era troppo appiattito sulle difese e andava fatto astenere”. 

Insomma, l’obiettivo della procura era far fuori Tremolada, nella speranza che la propria ipotesi accusatoria venisse accolta dai giudici. Il problema di fondo è che a sostegno dell’ipotesi di corruzione internazionale non è mai stata rintracciata alcuna prova. Un processo senza prove sfociato in un flop e in una guerra fra magistrati. 

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  • Ermes Antonucci
  • Classe 1991, abruzzese d’origine e romano d’adozione. E’ giornalista di cronaca giudiziaria e studioso della magistratura. Ha scritto "I dannati della gogna" (Liberilibri, 2021) e "La repubblica giudiziaria" (Marsilio, 2023). Su Twitter è @ErmesAntonucci. Per segnalazioni: [email protected]