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Il commento

L'emendamento Costa non è un bavaglio, ma è difficile che funzioni

Guido Salvini

Qualche rischio in più e pochi vantaggi per i diritti che si vogliono tutelare. L’esperienza dell’ex magistrato Salvini

Non sarà una legge bavaglio né il funerale della libertà di stampa, come con troppa enfasi è stato scritto, ma l’emendamento dell’on. Enrico Costa in merito al divieto di pubblicazione delle ordinanze cautelari non mi convince. Ne condivido in pieno le finalità di garanzia del cittadino ma temo proprio che non funzioni.

 

 Nel 2017 con la modifica, solo nove parole, dell’art. 114 c. p. p., introdotta dal ministro Orlando, è stata consentita la legittima e piena conoscenza delle ordinanze che applicano misure cautelari. Vi era sino a quella data in tutti i Tribunali invece un sottobosco in cui i provvedimenti giravano, spesso non i provvedimenti del gip ma le richieste del pubblico ministero, atti quindi di parte i cui contenuti, certi passaggi, certe sfumature potevano essere ben diversi, soprattutto sul piano dell’effetto mediatico, dal provvedimento giurisdizionale. In questa situazione non regolamentata i provvedimenti arrivavano per vie sotterranee non a tutti i giornalisti, alle agenzie in primo luogo che dovrebbero essere la prima fonte neutra delle notizie, ma solo ad alcuni cronisti fidati che frequentano i palazzi. Con l’evidente pericolo, in questa zona nebbiosa dell’informazione, di pilotare la notizia e favorire giornalisti amici che non potevano parlare se non con entusiasmo e senza spirito critico dell’operato degli inquirenti. Scrivere quindi non per informare ma per compiacere, selezionando alcuni passaggi di quanto avevano di mano e questo a dispetto della libertà di informazione che deve essere, per quanto possibile, completa, diffusa e uguale per tutti.

 
In più nell’informazione pilotata in modo conclamato per costruire un articolo fazioso, chi vuole lo sa fare benissimo, non c’era niente di meglio che enfatizzare una parte di un atto, minimizzarne un’altra, omettere del tutto le parti meno gradite. Se nessuno può vedere il documento che si commenta e formarsi un serio giudizio, l’operazione riusciva senza difficoltà ed era destinata a durare nel tempo. A seguito della possibilità di rendere pubbliche le ordinanze cautelari posso testimoniare quanto succede in concreto dal 2017 in un ufficio “strategico” come la sezione gip del Tribunale di Milano. Dopo l’emissione di una misura cautelare di interesse pubblico, che può riguardare un amministratore pubblico o un presunto boss della ‘ndrangheta, un noto musicista trapper o un gruppo di tifosi ultrà di San Siro, l’ordinanza può essere messa a disposizione, su richiesta e senza troppe formalità, dei giornalisti, tutti, non solo quelli di una certa tendenza e senza escludere nessuna testata, nemmeno quelle minori. Dopo tutti, Pubblici Ministeri e difensori, possono intervenire con i loro commenti ma almeno il lettore è posto in grado di comprendere di cosa si stia parlando. Molto semplice. Quindi, nel complesso, meno peggio di prima. 

 
Si è quindi molto ridotto il mercato degli atti passati furtivamente ai cronisti e nascosti sotto la giacca, con un vantaggio per una potenziale correttezza della cronaca giudiziaria. Tornare al regime precedente mi sembra sia percorrere una strada al contrario che è destinata a portare più danni che vantaggi proprio alle persone che si vogliono tutelare. È chiaro del resto che nel caso di misure cautelari nei confronti di persone con un ruolo pubblico o comunque all’interno di indagini per fatti clamorosi, la notizia della loro emissione non può che diventare nota, per infiniti canali, in pochissime ore. Ed è anche certo che nessuna descrizione di un evento giudiziario importante può essere di per sé totalmente obiettiva, esente da elementi di faziosità e della highlight su quella parte della notizia che appare più favorevole alla propria collocazione nel panorama politico–culturale. La descrizione dell’indagine che ha portato, solo per fare un esempio recente e senza entrare nel merito, all’incriminazione del figlio di Denis Verdini, per la vicenda degli appalti Anas, di certo non sarà mai rappresentata nella cronaca giudiziaria dei quotidiani di destra e dei quotidiani di sinistra allo stesso modo e, come si dice, con il medesimo “taglio”. Ma la disponibilità delle ordinanze cautelari, che oggi vengono anche pubblicate su molti siti, può limitare le distorsioni interessate e consente al lettore e a qualsiasi commentatore che voglia approfondire di controllare la rappresentazione di parte che gli può essere stata fornita dalle cronache. Altrimenti ci si troverebbe nella condizione di un appassionato di sport che potesse ascoltare o leggere il commento di un’importante partita di calcio ma cui non fosse consentito di vederla. Con in più il rischio, se l’emendamento fosse approvato così come è, che i cronisti ritornino ad abbeverarsi solo alle solite fonti, i Pubblici Ministeri e le annotazioni di Polizia giudiziaria “inquinate”, ed è comprensibile che sia così, da un pregiudizio favorevole alle indagini.

 
Certamente la pubblicità dell’ordinanza di custodia ha posto e continuerà a porre i gip dinanzi ad una seria responsabilità, un obbligo di self restraint. Devono infatti rimanere esclusi dai loro provvedimenti quegli “scarti” di indagine che non servono a provare la gravità degli indizi di colpevolezza a carico degli effettivi indagati ma a trasformare, abbellendolo, il provvedimento stesso in una notizia accattivante, piena di allusioni e di evocazioni e quindi dirompente sul piano mediatico spesso perché sfruttabile all’interno degli antagonismi politici del momento. Mi riferisco ad esempio, tutti abbiamo avuto occasione di leggerlo nei provvedimenti, alla presenza di quelle intercettazioni tra due soggetti, magari indagati, in cui, come spiccava poi subito nei titoli dei quotidiani “Spuntail  nome di…” e cioè di un terzo non indagato cui gli interlocutori fanno cenno per vicende del tutto estranee all’oggetto dell’indagine. Con l’effetto di trascinare per “simpatia” l’estraneo, spesso figura pubblica e conosciuta, nel fango di una vicenda processuale. È un fenomeno di malcostume giudiziario che negli ultimi anni si è per fortuna molto ridotto, soprattutto dopo gli interventi sulla selezione delle intercettazioni voluti dal ministro Orlando, ma che non è ancora del tutto scomparso. Sperando che non riemerga, contare sulla autodisciplina dei magistrati, nell’inevitabile assenza di qualsiasi controllo preventivo del contenuto di quanto scritto e poi depositato, è sempre sfidare una tentazione, quella di esondare.

 

Un altro problema che si muove negli stessi spazi resta certamente la frequente notizia dell’iscrizione di un soggetto nel registro delle notizie di reato o dell’informazione di garanzia, atti totalmente iniziali e prodromici che dovrebbero appunto avere anche una funzione di garanzia ma che tuttavia una volta divenuti noti possono avere per l’interessato conseguenze devastanti. Non dovrebbero essere atti soggetti a pubblicità ma invece di norma lo diventano, in questo caso non c’è nemmeno bisogno di avere in mano carte, basta che il pubblico ministero o la Polizia giudiziaria lo facciano sapere a qualche giornalista amico. È un trucchetto che funziona anche con la proroga delle indagini preliminari, un atto di per sé non segreto. Basta inviare l’avviso e dare la notizia prima ancora che l’interessato lo riceva. Un aspetto sicuramente interessante del disegno di legge Nordio attualmente in discussione è la previsione che l’iscrizione nel registro delle notizie di reato non sia un atto burocratico e automatico ma contenga almeno la descrizione del fatto prospettata nei confronti dell’indagato e in sostanza possa avvenire solo quando si siano già condensati elementi significativi. A questo si accompagna la previsione del divieto di pubblicazione sino, termine forse eccessivo, alla chiusura delle indagini preliminari. Se si ritiene, come penso, che la chiusura delle indagini sia un momento troppo distante rispetto a situazioni che impongono qualche forma di pubblica discussione, la notizia dell’iscrizione dovrebbe comunque essere consentita solo dopo che vi sia stato almeno un interrogatorio dell’indagato o un atto equipollente, con la possibilità da parte di questi di fornire gli elementi a sua difesa e la propria versione dei fatti. Nessuno, come accaduto anche in casi anche molto noti, deve svegliarsi la mattina per apprendere della stampa di essere entrato nel girone degli indagati.

 
All’emendamento Costa va riconosciuto il merito di aver riportato l’attenzione su questi problemi. Non è detto che non si possa migliorarlo per salvaguardare insieme il diritto di informazione e il diritto a non essere esposti alla gogna mediatica e a distorsioni accusatorie. Vedremo come si svilupperà la discussione in aula. Intanto azzarderei un’altra proposta, “fantasiosa” e un po’ provocatoria. Imporre ai mass-media l’obbligo di riferire delle sentenze di assoluzione, anche in appello, con gli stessi spazi e richiami di pagina con cui all’epoca, spesso molti anni prima, era stata data la notizia dell’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di un cittadino. L’onore di una persona non è una merce di cui non occuparsi più perché, insieme al processo, è ormai passata di moda. Sarebbe un grande segno di civiltà.