Ribellarsi ai pieni poteri dei pm combattendo i reati troppo vaghi

Claudio Cerasa

Il concorso esterno, l’abuso d’ufficio,  il traffico di influenze o i reati contro la pubblica incolumità: per i pm d’assalto diventano strumenti utili per disporre in modo discrezionale dei propri poteri, servendosi più dei teoremi che dei fatti. Le responsabilità della politica

La settimana che è trascorsa è stata principalmente dominata dalle reazioni politiche alle parole pronunciate dal ministro Nordio sul tema del concorso esterno. La storia la conoscete. Nordio ha detto quello che pensa sul concorso esterno: “Un reato evanescente che andrebbe rivisto”. Ha aggiunto che la riforma di questo reato non è in alcun modo prevista all’interno del programma di governo. Uno dei partiti della maggioranza (la Lega) ha tenuto a far sapere (per marcare una distanza da Meloni) che il reato di concorso esterno non va toccato (cosa che Nordio non ha mai detto di voler fare). Un altro partito (Forza Italia) ha invece detto (per provare a intestarsi le battaglie sul garantismo del governo) che il concorso esterno è effettivamente un reato troppo evanescente (e anche il capo di Forza Italia, Antonio Tajani, alla fine ha dovuto dire che non è un tema all’ordine del giorno). E infine la premier, a capo del partito di cui Nordio fa parte, è stata costretta a dire che le parole del suo ministro, vecchio birbante, sono parole da magistrato, lasciando intendere dunque che Nordio è meglio che parli unicamente nella sua nuova veste, che è quella del ministro, non del magistrato e neppure quella dell’editorialista del Messaggero.

 

Si è discusso molto dunque delle conseguenze politiche delle parole, un po’ goffe, di Nordio. Ma si è discusso poco, fuori dal mondo della politica, di un tema sottinteso nelle parole di Nordio. Un tema non di poco conto che forse non dovrebbe affrontare un ministro, d’accordo, ma che in ogni caso costituisce uno dei veri drammi irrisolti del sistema giudiziario italiano. Il riferimento fatto da Nordio alla questione del concorso esterno non è fuffa ma è un dato reale. Anni fa, proprio su questo giornale, il professor Giovanni Fiandaca spiegò quanto potesse essere pericoloso avere, in un ordinamento giuridico come il nostro, una tipologia di reato così vaga, così poco perimetrata e così soggetta a interpretazioni discrezionali. “Il principio di legalità in materia penale – scrive Fiandaca – esige non solo che i reati siano definiti dal legislatore (principio cosiddetto di riserva di legge), ma che il legislatore li definisca nella maniera più precisa possibile (principio cosiddetto di sufficiente determinatezza o precisione), onde evitare che sia il giudice a stabilire di volta in volta a sua discrezione i fatti punibili. Sotto l’aspetto del principio di legalità così concepito – dice ancora Fiandaca – un istituto come il concorso esterno nel reato associativo presenta alcune peculiarità. Ciò nel duplice senso che esso, per un verso, è privo di una previsione legislativa puntuale e specifica (a differenza ad esempio della norma sull’omicidio, sul furto, sulla violenza sessuale o sull’associazione mafiosa ecc., nessuna specifica norma penale definisce infatti il concorso esterno come tale, né tanto meno ne descrive i requisiti costitutivi) e, per altro verso, risulta abbastanza generico e indeterminato nella sua fisionomia con conseguente incertezza circa l’ambito e i confini della punibilità”.

 

La caratteristica dei reati per così dire vaghi è quella di essere per i pubblici ministeri d’assalto degli strumenti utili per poter disporre in modo discrezionale dei propri poteri e per riuscire a portare avanti indagini anche senza aver bisogno di prove schiaccianti. Servendosi dunque più dei teoremi che dei fatti. In questo senso, il reato di concorso esterno è parte di una galassia più grande, infinitamente più grande, all’interno della quale si trovano tipologie di reati diversi. Pensate, per esempio, alle responsabilità colpose in caso di disastri naturali o di gravi incidenti (omicidio colposo, disastro colposo). Pensate, per esempio, al finanziamento illecito ai partiti o alla corruzione a fronte di contributi ricevuti in occasione di campagne elettorali.

 

Pensate, per esempio, ai reati ambientali legati al superamento di parametri prefissati. Pensate ancora allo stesso abuso d’ufficio, che consente a un pm di portare avanti indagini anche a fronte di indizi inesistenti. Pensate, ancora, al traffico di influenze, una norma che in alcune circostanze rischia di mettere fuori legge lo stesso concreto esercizio della politica, che la stessa Cassazione, nel 2022, ha ammesso essere una norma che “non chiarisce quale sia la influenza illecita che deve tipizzare la mediazione e non è possibile, allo stato della normativa vigente, far riferimento ai presupposti e alle procedure di una mediazione legittima con la pubblica amministrazione attualmente non ancora regolamentata”.

 

Pensate, infine, anche a tutti i reati contro la pubblica incolumità (qual è il perimetro esatto per definire un disastro?). Pensate, come ha scritto il penalista Cristiano Cupelli sul nostro giornale, ad altre fattispecie vaghe, come la turbata libertà degli incanti (art 353 cp, norma che regola il concetto di gara d’appalto) o come la norma che regola  la corruzione per l’esercizio della funzione (art 318 cp), che altro non sono che “ipotesi nelle quali l’estrema labilità del confine semantico degli elementi fondamentali delle fattispecie incriminatrici apre le porte alle distorsioni interpretative da parte della giurisprudenza”. Gli avvocati più colti chiamano questo fenomeno “il diritto penale onnivoro”, che attribuisce alla magistratura un potere estremamente invasivo.

 

E in un formidabile saggio scritto anni fa dal professor Filippo Sgubbi, ex docente di Diritto penale all’Università di Bologna, oggi scomparso, si notò un fenomeno interessante. Drammatico. Quando il diritto penale, scriveva Sgubbi, diventa uno strumento per affermare una certa idea di etica pubblica dove le vestali della giustizia, i magistrati e i giudici, “perdono la loro tipizzazione classica per assumere un profilo diverso sempre meno tecnico e sempre più politico”. Dove “le presunzioni sostituiscono le verità e le narrazioni sostituiscono le interpretazioni”. Dove la morale pubblica si è ormai identificata con il perimetro della incriminazione penale al punto che “ci si attende molto di più da una sentenza che non da una legge”.

 

Un altro esempio per capire di cosa stiamo parlando? Facile: pensate al movimento del #MeToo. “Il movimento #MeToo – ha scritto  Sgubbi – ha esteso a dismisura nozioni giuridiche consolidate come il concetto di molestia, ha condizionato di fatto e in modo indebito varie forme di rapporti intersoggettivi e di ruolo sociale, ha ribaltato inevitabilmente il canone dell’onere della prova. Anzi, reclama l’irrilevanza delle prove e perfino dell’accertamento giudiziale di un fatto, con la sfrontatezza di chi ritiene che sia sufficiente soltanto la parola della sedicente vittima per scatenare effetti sanzionatori sul preteso colpevole. La salvezza dell’incolpato è impossibile: insignificante fornire la prova contraria e, di fronte a questo nuovo Sant’Officio, anche l’abiura e il pentimento sono privi di effetti”.

 

Il magistrato è un uomo. Ha idee. Ha opinioni. Gli si può chiedere di non esprimerle in pubblico. Ma non si può evitare che la presenza di alcuni reati vaghi spinga il magistrato ad avere un ruolo che non gli dovrebbe competere. Trasformare un comportamento in un reato, per esempio. E far sì che i giudici quando scrivono le sentenze si sentano a volte più simili agli editorialisti che ai magistrati. Non perché i magistrati vogliano fare necessariamente gli scrittori (non tutti almeno) ma perché ai magistrati negli anni è stata concessa dalla politica la possibilità di mettere la loro visione del mondo a servizio più della Verità che della Legalità. E il loro potere discrezionale nasce da qui. Non da una forzatura, o quantomeno non solo da quella, ma da una possibilità oscena che il legislatore ha concesso negli anni: aumentare a dismisura i reati vaghi per coccolare i magistrati offrendo loro più pieni poteri di quelli rivendicati dai leader in mutande in vacanza al Papeete.
 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.