L'inchiesta infinita sul caso Orlandi e il senso (svanito) della giustizia. Parla il giurista Amodio

Ermes Antonucci

Le indagini sulla scomparsa, riaperte per la terza volta dopo 40 anni. Il professore emerito di Procedura penale: “Siamo di fronte a una storia senza fine che ogni tanto salta fuori, viene cavalcata dai media per interesse, ma non arriva mai a identificare responsabili"

"Siamo di fronte a ciò che gli americani chiamerebbero una ‘never ending story’, una storia senza fine, cioè una storia che ogni tanto salta fuori, viene cavalcata dai media per l’interesse che ha, suscita sprazzi di speranza, ma è quasi sempre destinata a non vedere la fine”. Così Ennio Amodio, professore emerito di Procedura penale e autore di “Estetica della giustizia penale. Prassi, media, fiction” (edito da Giuffrè), definisce l’ennesima riapertura delle indagini da parte della procura di Roma sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. L’inchiesta – la terza in 40 anni, dopo quelle già svolte e archiviate nel 1997 e nel 2015 – si svolgerà in collaborazione con le autorità giudiziarie vaticane, che lo scorso gennaio hanno deciso di riaprire il caso, a quasi quarant’anni dalla scomparsa della ragazza, avvenuta il 22 giugno 1983.

 

Ciò che abbiamo appreso finora – prosegue Amodio – è che non vi sono risultanze di particolare rilievo, come testimonianze, dichiarazioni o nuovi documenti rintracciati. E allora subentra una considerazione, doverosa per qualsiasi studioso del processo penale, circa l’estrema difficoltà di reperire delle prove a enorme distanza di tempo dal fatto. Si può dire che la prova si consuma. Scompaiono addirittura i testimoni, e anche i documenti e altre fonti probatorie che possono essere significative finiscono per sfilacciarsi e non dare quelle risposte che si attende l’investigatore. Come dicono negli Stati Uniti, si tratta di casi freddi, nel senso che oramai col passare del tempo si è arenata l’idea di una possibilità di scoprire i responsabili”.

 

La logica conseguenza, secondo Amodio, è che “si impone una grande cautela”: “Probabilmente il modo migliore di procedere non è quello di sbandierare ai media che si sta riaprendo il caso, ma far capire che ci sono degli elementi effettivi e di importanza notevole che consentono di riaprire le indagini”.

 

Il problema, tuttavia, è proprio che nel caso in questione risultano mancare nuove prove sulle quali instaurare nuove indagini. Le affermazioni allusive rilasciate agli organi di informazione nei mesi scorsi da Giancarlo Capaldo, il pm che si è occupato del caso Orlandi dal 2008 al 2015, sembrano essere veramente poca cosa. E riaprire le indagini dopo quarant’anni senza nuove prove significa andare contro il principio costituzionale del giusto processo. “Con il passare del tempo anche le persone indagate hanno meno possibilità di difendersi, perché laddove affiorasse un’imputazione è difficile, a enorme distanza di tempo, andare a raccogliere tutti gli elementi di contrasto all’accusa”, spiega Amodio.

 

Insomma, secondo il giurista “il processo che si risveglia da un sonno molto prolungato finisce per essere sia inadeguato rispetto alle attese della giustizia, per quanto riguarda la ricerca della verità, sia ingiusto nei confronti dell’imputato, che si trova pressoché nell’impossibilità di far valere le sue ragioni per l’impossibilità di attingere alle prove che potrebbero scagionarlo”.

 

Inoltre, quello di Emanuela Orlandi è un caso particolare perché è incardinato nel mondo vaticano, “un’istituzione che è di per sé molto riservata, per non dire chiusa, dalla quale è difficile possano emergere novità dopo così tanti anni. Non a caso si sono aperte piste dovute a interventi di personaggi non proprio commendevoli, che avevano frequentazioni con la criminalità romana”. Di fronte alla riapertura delle indagini, secondo Amodio “ci si potrebbe porre anche una domanda: cui prodest? C’è qualcuno dietro le quinte che spinge per riaprire il fascicolo di Emanuela Orlandi?”.

 

“Allora si potrebbe anche pensare, ma sono pure congetture, a una gestione impropria del caso, nel senso che l’indagine serve a colpire o a far temere una certa fascia politica o istituzionale. Si inserisce il problema delle lotte intestine nell'ambito delle istituzioni ecclesiastiche, tra la cultura progressista e quella più tradizionale”, conclude Amodio.

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