(foto Ansa)

L'amaro naufragare della giustizia nel mare dei processi infiniti

Claudio Cerasa

Si riaprono le indagini sul caso di Emanuela Orlandi, a 40 anni dalla sua scomparsa. Perché le inchieste eterne appassionano l’Italia ma sono un virus dello stato di diritto. Procure, media, bar sport del complottismo: la tesi, di un vecchio magistrato con uso di mondo

Un vecchio magistrato con uso di mondo, di fronte alla notizia della riapertura delle indagini sul caso di Emanuela Orlandi a quarant’anni tondi tondi dalla sua scomparsa, ha offerto al cronista una tesi cinica ma interessante per provare a inquadrare uno dei grandi misteri italiani, mistero persino più misterioso del caso di Emanuela Orlandi: le inchieste infinite. Dice il vecchio magistrato con uso di mondo che le inchieste infinite appassionano così tanto l’Italia per due ragioni diverse, che prescindono totalmente dall’idea di voler avere giustizia. La prima ragione è di carattere culturale. Attorno alle inchieste eterne si genera un indotto potenzialmente eterno e tutti i soggetti che negli anni si sono appassionati all’inchiesta eterna hanno mille ragioni per non far mai cadere l’attenzione sulla suddetta inchiesta. La seconda ragione è di carattere mediatico e le inchieste eterne restano eterne anche perché spesso vi sono magistrati che attraverso le inchieste eterne cercano un modo per avere anche loro un’eterna visibilità mediatica. 

 

Il vecchio magistrato con uso di mondo nota poi un aspetto interessante delle inchieste eterne che riguarda alcune caratteristiche per così dire territoriali che hanno le suddette inchieste. Al sud, i magistrati eroi che sognano di legare la propria visibilità mediatica alle inchieste eterne sanno che la via più sicura per raggiungere il proprio obiettivo è aprire e riaprire un numero indefinito di volte inchieste del passato che riguardano casi irrisolti di mafia (quante volte è stata riaperta la tomba del bandito Giuliano?). Al nord, i magistrati eroi che sognano di legare la propria visibilità mediatica alle inchieste eterne sanno che la via più sicura per raggiungere il proprio obiettivo è aprire e riaprire un numero indefinito di volte inchieste del passato che riguardano presunti affari loschi (quante volte è stata aperta e riaperta un’indagine su Eni?).

 

Al centro, i magistrati eroi che sognano di legare la propria visibilità mediatica alle inchieste eterne sanno che la via più sicura per raggiungere il proprio obiettivo è buttarsi a capofitto sul più grande mistero romano dopo il caso Simonetta Cesaroni: Emanuela Orlandi. Capire le ragioni per cui la famiglia di Emanuela Orlandi chiede giustizia non è difficile, naturalmente, così come non è difficile capire lo strazio che può provare una famiglia perbene che da quarant’anni cerca risposte sul destino di una ragazza sparita a quindici anni. Capire le ragioni per cui però il caso Orlandi, da anni, scalda il cuore dei giornalisti, e degli sceneggiatori, è altrettanto semplice, e la popolarità del caso Orlandi dipende più che dalla storia in sé, più che dalla ricerca della verità, dalla capacità di questa storia di essere diventata la sede nazionale del bar sport dei piccoli e grandi complottismi italiani. Un bar sport dove, senza curarsi di avere qualcosa che assomigli anche lontanamente a una prova, si può parlare liberamente di tutto. Dello Ior. Del Banco Ambrosiano. Del terrorismo internazionale. Di Roberto Calvi. Della banda della Magliana. Della tratta delle bianche. Del Kgb. Di Licio Gelli. Della P2. Di Marcinkus. Dell’Opus Dei. Non può stupire dunque che il caso Orlandi sia diventato una fonte inesauribile di polemiche politiche (vuoi conquistare un po’ di elettorato anticlericale a costo zero: buttati sul caso Orlandi), di sceneggiati prelibati (la serie su Netflix ha spinto il Vaticano a riaprire il caso) e di casi editoriali mancati (esistono almeno ventiquattro libri dedicati al caso della Orlandi, alcuni scritti da giornalisti curiosi, come quello di Maria Giovanna Maglie, libri che descrivono il caso Orlandi senza voler offrire verità assolute, e altri  scritti da magistrati come Giancarlo Capaldo, che dopo aver indagato per anni sul caso Orlandi, non avendo trovato una prova provata capace di chiudere il mistero ha pensato bene di mettere a frutto il suo impegno civico in un ottimo libro per Chiarelettere).

 

Quello che però stupisce è che all’interno del circo mediatico-giudiziario non vi sia nessuno interessato a far emergere un’altra verità che in uno stato di diritto meriterebbe di non essere archiviata. E la piccola verità è questa: le inchieste eterne, con la loro grancassa mediatica che trasforma queste inchieste in galline dalle uova d’oro, non sono l’emblema di una giustizia eroica che non si rassegna  al tempo che passa ma sono al contrario l’emblema di una giustizia incapace di comprendere che le inchieste che non finiscono rappresentano a loro volta un’incredibile forma di ingiustizia. La malagiustizia non è rassegnarsi al fatto che alcuni delitti possono anche non essere scoperti, ma è non ricordare che scoperchiare tombe a distanza di quarant’anni e riaprire dopo quarant’anni inchieste senza avere nuove prove significa andare contro l’amata Costituzione (“La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”) e significa andare contro la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articolo 6 della Cedu: “Ogni persona ha diritto a un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta”).

Giancarlo Capaldo, personaggio centrale nella vicenda di Emanuela Orlandi, in quanto all’epoca dei fatti indagò da procuratore sulla sparizione della Orlandi, per sette anni, è uno dei magistrati più ascoltati e intervistati sul caso della Orlandi. Ma ogni volta che vi è una ragione buona per riparlare del caso Orlandi le parole consegnate da Capaldo ai giornalisti diventano regolarmente il manifesto di tutto quello che un buon magistrato dovrebbe evitare: essere allusivo senza prove ed evocare teorie del complotto senza avere pezze d’appoggio. Mercoledì scorso, intervistato dalla Stampa, Capaldo non si è trattenuto e ha dato il meglio di sé: “Credo che Emanuela sia entrata, con l’ingenuità dei suoi quindici anni, in un gioco troppo più grande di lei. Ritengo che sia stata sequestrata a fini di ricatto e poi riconsegnata da De Pedis a qualcuno inviato dal Vaticano. Temo che, successivamente, la povera Emanuela sia morta”. Credo. Ritengo. Temo. Le inchieste eterne, in fondo, servono anche a questo: alimentare sospetti senza prove, senza avere pezze d’appoggio, senza avere nulla da dire, anche a costo di offrire false illusioni e anche a costo di dare il proprio contributo a una forma di malagiustizia che gli adescatori del bar sport del complottismo non possono permettersi di combattere: l’oscenità del processo eterno.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.