Neanche Nordio riesce a dire “basta” ai magistrati fuori ruolo

Ermes Antonucci

Il ministro della Giustizia ha fatto piazza pulita delle toghe di sinistra che occupavano posizioni di potere a via Arenula, sostituendole però con altri magistrati. L'ultima nomina è quella di Rosa Sinisi, coinvolta nel caso Palamara

Il ministero della Giustizia resta terra di conquista dei magistrati fuori ruolo. I vertici di via Arenula hanno fatto sapere nei giorni scorsi di aver predisposto un emendamento governativo al decreto legge assunzioni che prevede per i prossimi tre anni di redistribuire in modo parzialmente differente il totale dei magistrati già fuori ruolo, riducendo di dieci unità quelli assegnati ad altre amministrazioni a favore del ministero della Giustizia, in modo da favorire il raggiungimento degli obiettivi prioritari del Pnrr. Fonti del ministero guidato da Carlo Nordio hanno comunque confermato la futura riduzione del numero complessivo dei magistrati fuori ruolo: dall’attuale soglia dei 200 in totale (65 al ministero di via Arenula, gli altri dislocati in altre amministrazioni) si passerebbe a 180 dal 2027. Cioè un taglio di soltanto venti unità. Non proprio il radicale cambiamento che ci si sarebbe aspettati da un esecutivo di centrodestra. 

 

La stessa maggioranza, lo scorso dicembre, aveva votato alla Camera in favore di un ordine del giorno presentato dal Terzo polo che impegnava il governo “ad operare una significativa riduzione del numero di magistrati fuori ruolo presso il ministero della Giustizia, con particolare riferimento a quelli che svolgono funzioni amministrative e alle posizioni per le quali non è tassativamente richiesta dalla legge la qualifica di magistrato”. 

 

Una volta insediatosi al ministero della Giustizia, Carlo Nordio ha fatto piazza pulita delle toghe di sinistra che occupavano le posizioni di potere a via Arenula, sostituendole però pur sempre con altri magistrati, di estrazione più conservatrice: capo e vicecapo di gabinetto (Alberto Rizzo e Giusi Bartolozzi), capo dell’ufficio legislativo (Antonello Mura), capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Giovanni Russo), capo del Dipartimento degli affari di giustizia (Luigi Birritteri). Come se questi incarichi non possano essere affidati a personalità diverse dai magistrati, come giuristi, docenti universitari, avvocati ed esperti interni all’amministrazione ministeriale (evitando così commistioni tra il potere politico e quello giudiziario). 

 

L’ultima nomina è arrivata una decina di giorni fa: il Consiglio superiore della magistratura ha infatti approvato (con 14 voti favorevoli, nove contrari e sette astenuti) l’autorizzazione all’incarico fuori ruolo per Rosa Patrizia Sinisi, presidente della corte d’appello di Potenza, scelta da Nordio come vicecapo del Dog (Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria). Il via libera alla nomina ha creato una profonda spaccatura all’interno del Csm in virtù del coinvolgimento della giudice (appartenente alla corrente di Unicost) nelle ormai celebri chat di Luca Palamara. Dai messaggi, è emerso che Sinisi, “legata a Palamara da ragioni di militanza associativa, aveva in più occasioni interloquito con il medesimo sulle procedure di conferimento di incarichi, rivendicando addirittura in un caso ‘l’appartenenza’ del posto al gruppo di Unicost”. Nonostante ciò, la giudice non subì alcun procedimento disciplinare (grazie all’amnistia decisa dall’allora procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi), né un trasferimento per incompatibilità ambientale, pur in presenza di condotte “inopportune” e capaci di “determinare una ricaduta negativa sull’immagine di imparzialità e indipendenza” della magistratura. 

 

A schierarsi, invano, al Csm contro la nomina di Sinisi è stato soprattutto il togato indipendente Andrea Mirenda, che, al di là del caso specifico, al Foglio dichiara: “I magistrati devono fare i magistrati. Il ministero si doti di un proprio apparato burocratico di esperti. Quando servono le esperienze dei magistrati è sufficiente chiamarli ad horas oppure costituire specifiche commissioni, senza mandarli fuori ruolo”. “In questo modo si garantisce anche la separazione dei poteri, anziché un sistema di porte scorrevoli particolarmente ambito per poi ottenere posti dirigenziali”, conclude Mirenda. 

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