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Il caso

Trattativa stato-media. Il guaio di un paese indifferente di fronte ai pm disinteressati alle prove

Claudio Cerasa

Il “processo del secolo” dimostra che la separazione delle carriere più urgente è quella tra pubblici ministeri e giornalisti

Provate a chiudere gli occhi e a fare un piccolo esperimento. Provate a passare in rassegna, nella vostra mente, i nomi dei magistrati che negli ultimi anni hanno sposato le tesi della trattativa stato-mafia e provate a passare in rassegna, contemporaneamente, i nomi dei magistrati che hanno arrestato per esempio Matteo Messina Denaro, il più importante tra i boss di Cosa nostra arrestati negli ultimi anni. Con sorpresa, o forse no, scoprirete che nella vostra mente i nomi dei magistrati che hanno abbracciato i teoremi della trattativa stato-mafia sono nomi ben noti, nomi come Antonio Ingroia, come Nino Di Matteo,  come Roberto Scarpinato, mentre i nomi dei magistrati che hanno arrestato grandi boss della mafia, nomi che spesso dicono poco al grande pubblico, nomi come quello del procuratore di Palermo Maurizio De Lucia, sono nomi che vi suoneranno come nuovi. Nomi di cui non ricordate il volto, nomi di cui non ricordate le parole, nomi di cui non ricordate la voce, nomi di cui non ricordate qual è stata l’ultima volta che li avete ascoltati in tv. Se c’è una lezione fra le tante che vale la pena isolare dall’incredibile farsa rappresentata dall’inchiesta sulla presunta trattativa stato-mafia (i giudici di Appello avevano assolto Mori, Subranni e De Donno perché il fatto non costituisce reato, l’assoluzione della Cassazione di due giorni fa è “per non aver commesso il fatto”: anni di scemenze spazzate via), quella lezione non può che riguardare la definizione perfetta del modello di magistrato di cui vale la pena non fidarsi. Quel magistrato – anche grazie alla trattativa stato-mafia, anche grazie a un processo che nel tempo si è trasformato in un formidabile atto d’accusa non contro i presunti servitori dello stato che sarebbero stati compromessi con la mafia (non era vero) ma contro altri servitori dello stato che hanno scelto di utilizzare la leva della lotta alla mafia per mettere la giustizia al servizio più del codice morale che del codice penale – è un magistrato oggi perfettamente riconoscibile. E’ un magistrato per cui ciò che conta in un’inchiesta non è la sentenza ma è “ciò che l’inchiesta ha scoperchiato”. E’ un magistrato per cui ciò che conta non è il processo celebrato nelle aule dei tribunali ma è quello celebrato sui media. E’ un magistrato per cui ciò che conta non è la sentenza del tribunale vero ma è la sentenza del tribunale del popolo.

 

E’ un magistrato che ha scelto di mettere la giustizia non al servizio della legge ma al servizio di una causa più grande, più profonda, più etica, quasi divina: la riscrittura della storia. E’ un magistrato, infine, che si riconosce facilmente perché è impegnato con costanza a illuminare, nella sua brillante attività mediatica, ciò che non si vede, ciò che si nasconde, ciò che non risulta evidente neppure dalle prove, e ci mancherebbe. E non essendo le sue prove solide, è costretto a corredare le sue indagini, spesso difettose, con tutto ciò che il circo Barnum dei media mette a disposizione dei magistrati che vogliono evidenziare le zone d’ombra. Vanno in tv, dunque, scrivono libri, partecipano ai convegni, inviano articoli ai giornali, si fanno intervistare in prima serata, vanno in vacanza con i giornalisti d’assalto, danno il proprio contributo per le sceneggiature dei film tratti dalle loro indagini non solo perché sono vanesi, e apprezzano il consenso, ma anche perché pensano che compito di un magistrato sia quello di raggiungere una certezza storica, e anche politica, attraverso gli strumenti giudiziari e per questo tendono a utilizzare i processi non come un fine ma come un mezzo per arrivare a qualcosa di più importante: la Verità, con la v maiuscola naturalmente. Il magistrato in questione, che rappresenta solo una piccola e probabilmente irrilevante fetta della magistratura, è un magistrato che in questi anni ha arrecato gravi danni al sistema giudiziario, delegittimando non solo se stesso ma un’intera categoria. Ed è un magistrato che ha dominato la scena pubblica non solo perché mentre lui rincorreva le farfalle gli altri magistrati, quelli di cui non conosciamo la voce, davano la caccia ai mafiosi, provando a non dare la caccia a chi i mafiosi negli anni li ha arrestati, come il Ros. Ma anche perché i magistrati responsabili, ragionevoli, affidabili hanno scelto per troppo tempo di chiudere gli occhi di fronte alle oscenità emerse in questi anni dalle inchieste spazzatura, dimenticando di farsi sentire per denunciare l’unica vera collusione emersa dalle indagini su Mori e compagnia che meriterebbe un processo pubblico: la trattativa stato-media. “Chiunque sapesse un po’ di diritto”, ha scritto ieri con onestà sul Foglio il giudice Guido Salvini a proposito di quello che ha definito “un Titanic per alcuni pubblici ministeri”, “sapeva che il processo galleggiava sul nulla, sostenuto soprattutto dai mass media, e che prima o poi sarebbe affondato”. Salvini ha ragione. Eppure in questi anni i magistrati che hanno avuto il coraggio di denunciare le porcate della trattativa stato-media – i magistrati cioè che hanno avuto la forza di mettere l’antimafia dei fatti al riparo dall’antimafia della chiacchiera – sono stati pochi. E con il loro silenzio, purtroppo, hanno contribuito a indebolire la giustizia italiana, e dunque lo stato, trasformando il complottismo veicolato dai campioni dell’antimafia delle chiacchiere non in una mela marcia del sistema giudiziario ma in un suo spaventoso fiore all’occhiello.

 

Se c’è una lezione non moralistica fra le tante che vale la pena isolare dall’incredibile farsa rappresentata dalla trattativa stato-mafia – farsa, vale la pena di ricordarlo, che è stata sostenuta a più riprese nel recente passato dall’intero arco costituzionale dei giornali progressisti, dal Fatto quotidiano a Repubblica passando per la Stampa, e che è stata alimentata da un numero indecifrabile di conduttori di talk-show: citofonare a Michele Santoro – la lezione, semplice, è una ed è elementare: chi si occupa di fare i processi in un’aula giudiziaria dovrebbe astenersi dal fare i processi mediatici. La cultura del sospetto, lo sappiamo, può essere un formidabile motore per scrivere libri di successo, per collaborare a sceneggiature da urlo, per creare fiction da sballo. Ma quando la cultura del sospetto diventa il carburante unico di uno stato di diritto bisognerebbe ricordarsi che quello che si ha di fronte non è, come diceva Giovanni Falcone, l’anticamera della verità ma è l’anticamera del khomeinismo. E dopo aver tollerato per troppo tempo le barbarie contenute nel processo sulla trattativa stato-mafia, e dopo aver tollerato per troppo tempo che i magistrati di cui conoscete la voce sono quelli che si sono distinti più per rincorrere le farfalle che quelli che si sono distinti per acchiappare i mafiosi, il circo Barnum della giustizia avrebbe ora il dovere di denunciare con forza i danni prodotti dalla trattativa stato-media, offrendo al paese qualcosa di più di una semplice scrollata di spalle per promuovere la separazione delle carriere tra magistrati e giornalisti.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.