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giustizia

La sentenza della Cassazione è la pietra tombale su anni di imbrogli della cosiddetta Trattativa

Giuseppe Sottile

Mori, Subranni e De Donno assolti perché il fatto non sussiste. La Trattativa stato-mafia non c'è stata: si chiude una stagione di azzardi, di mistificazioni, di imbrogli dall’antimafia pettoruta

Che cosa si inventeranno ora quei magistrati di frontiera, chiamiamoli così, che per oltre dieci anni hanno spacciato il teorema di uno Stato complice della mafia? Con quale coraggio andranno ancora in giro per giornali e televisioni ad arzigogolare sul patto scellerato tra investigatori felloni e i boss stragisti di Cosa Nostra? La Cassazione ieri ha fatto piazza pulita della cosiddetta Trattativa. Già la Corte d’appello di Palermo aveva sconfessato la sentenza di primo grado, quella che infliggeva pesanti condanne non solo ai tre alti ufficiali del Ros – Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno – che tra il 1992 e il 1993 cercarono di arginare il fiume di sangue che scorreva per le strade di Palermo, ma anche la pena a undici anni di carcere decisa per Marcello Dell’Utri. 

 

Per i tre ufficiali del Reparto operativo dei carabinieri la Suprema Corte è andata addirittura oltre. I giudici di appello avevano assolto Mori, Subranni e De Donno perché il fatto non costituisce reato: il collegio cioè dava per scontato che gli ufficiali avessero contattato, tramite Vito Ciancimino, i sanguinari corleonesi di Totò Riina; ma lo avevano fatto non per trattare, in nome e per conto dello Stato, un alleggerimento del carcere duro assegnato ai boss di Cosa Nostra; si erano solo adoperati per cercare di capire come fermare la stagione delle stragi. La Cassazione, accogliendo la tesi dei difensori, ha stabilito invece che il “fatto non sussiste”. Cioè che la trattativa non c’è stata. I boss – da Totò Riina a Leoluca Bagarella, da Giovanni Brusca a Gaetano Cimò – ci avranno pure provato ma la tentata minaccia è già finita in prescrizione e quindi sul mastodontico processo cala definitivamente il sipario.

    

Forse è il caso di ridirlo: per quasi vent’anni la giustizia italiana ha inseguito una “boiata pazzesca”, fidandosi di un pataccaro come Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, trasformato dai pubblici ministeri in una sorta di ventriloquo del padre. Il ragazzo diceva di avere ascoltato colloqui scottanti, di avere partecipato a incontri scellerati, di avere in cassaforte l’originale del famigerato papello, il foglio sul quale Totò Riina in persona aveva stilato il lungo elenco di richieste, inoltrato a un governo della Repubblica già messo con le spalle al muro dal terrorismo mafioso. Ma erano tutte fandonie. Imposture che affascinavano i magistrati della procura di Palermo, da Antonio Ingroia a Nino Di Matteo, e che all’un tempo spalancavano alla Trattattiva e ai suoi attori le porte dorate dei talk-show, delle interviste senza filtro, dei libri venduti come acqua pura.

 

Massimuccio, che pure era figlio di don Vito – che fu anche sindaco di Palermo oltre che fiancheggiatore dei corleonesi – divenne, manco a dirlo, una “icona dell’antimafia”: fu portato in processione per quasi due anni e baciato in pubblico persino da Salvatore Borsellino, fratello del giudice massacrato nell’attentato di via D’Amelio.

 

Fu una grande festa. Anche per i magistrati coraggiosi, per quei pm che avevano ripescato il vecchio fascicolo dei “sistemi criminali”, archiviato da tempo, e lo avevano adattato ai tempi moderni. Ai tempi televisivi. Chi non ricorda i collegamenti, persino dal Guatemala, di Michele Santoro e Marco Travaglio, con Ingroia che in preda a chissà quali ardori e furori pensò addirittura – siamo nel giugno del 2013 – di presentarsi alle elezioni politiche come candidato alla presidenza del Consiglio? La sua avventura finì com’era prevedibile in un impietoso zero virgola, ma la scia luminosa della Trattativa non conobbe sosta. Avallata dal gip Piergiorgio Morosini, che un mese fa è ritornato al Palazzo di Giustizia di Palermo come presidente del Tribunale, il processo passò nelle mani di quattro pubblici ministeri, il cui battitore libero, nell’aula bunker dell’Ucciardone, è stato per cinque anni Nino Di Matteo che, fino a oggi. è il magistrato più scortato d’Italia, gratificato con più di cento cittadinanze onorarie assegnate a suo merito da grandi e piccoli comuni d’Italia.

 

Fino alla sentenza di primo grado comunque era tutto andato liscio: la Corte d’Assise, presieduta da Alfredo Montalto, aveva accolto quasi tutte le richieste dell’accusa e aveva messo alla gogna sia Dell’Utri, sia i tre ufficiali del Ros. E ciò, nonostante fosse stato dimostrato in aula che il “papello” esibito da Massimo Ciancimino fosse una volgare impostura costruita a tavolino con l’aiuto di una fotocopiatrice; una patacca, appunto. Ma la Cassazione, alla quale era nel frattempo arrivato un primo stralcio del processo – quello celebrato con rito abbreviato e che vedeva imputato l’ex ministro democristiano Calogero Mannino – mostrava già le prime insofferenze. Al punto che assolveva con formula piena Mannino e denunciava alcune incongruenze certamente non secondarie. Mancava il movente: lo Stato, proprio con l’iniziativa di quei tre ufficiali del Ros, aveva arrestato Riina e aveva murato vivi al regime del 41bis gli altri boss. Mancavano soprattutto le prove: se c’è stata – così recitava il capo di imputazione – una minaccia al Corpo politico dello stato, da quali uomini e con quali messi è stata veicolata la minaccia; in che tempi, in quali circostanze? Mistero.

 

E di mistero in mistero, siamo arrivati al secondo pronunciamento della Cassazione, quello di ieri. Che di fatto mette la pietra tombale su dieci anni di azzardi, di mistificazioni, di imbrogli. Per dieci anni tre ufficiali dei carabinieri, che avrebbero meritato la medaglia al valore civile e militare solo per avere arrestato nel gennaio del ‘93 il capo dei capi, sono stati appesi al palo della gogna. Umiliati e mortificati. Dissanguati dai soldi pagati agli avvocati. Sono invecchiati – Mori ha compiuto 83 anni, Subranni ha superato i 90 anni – dentro la gabbia di un processo costruito con le patacche di Ciancimino e con le menzogne dei pentiti.

 

La settimana scorsa ci siamo quasi tutti indignati perché la preside antimafia dello Zen, la periferia più disperata di Palermo, rubacchiava il cibo e i tablet destinati agli alunni della scuola “Giovanni Falcone” ed è finita in carcere. Indignazione sacrosanta. Ma a Mori, a Subranni e a De Donno l’antimafia spocchiosa e pettoruta degli apparati ha rubato – per ragioni di giustizia, va da sé – dieci anni di vita.

  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.