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L'intervista

Sì, la Trattativa stato-mafia era una boiata. Parla Fiandaca

Luca Roberto

"La sentenza della Cassazione conferma che questo processo non sarebbe mai dovuto esistere. E mostra le distorsioni del sistema giudiziario e mediatico", dice il professore emerito di Diritto penale all'Università di Palermo

“E insomma alla fine avevo ragione a sostenere che il processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia fosse una boiata pazzesca. Un pasticcio giuridico, non si sarebbe mai dovuto fare”. Per Giovanni Fiandaca, professore emerito di Diritto penale all’Università di Palermo, la sentenza della Corte di cassazione sulla Trattativa è una specie di cerchio che si chiude. Nel 2012 scrisse un saggio in cui spiegava per filo e per segno perché facesse acqua da tutte le parti. “Per quanto possa essere compiaciuto che le mie critiche fossero giuridicamente fondate, questa vicenda è una fotografia che ci aiuta a riflettere sulle storture della giustizia italiana”, dice oggi Fiandaca.

 

Secondo Fiandaca, uno dei più autorevoli giuristi italiani, “negli ultimi dieci anni, piuttosto che ergersi al ruolo di sociologi, storici, moralizzatori, a Palermo avrebbero potuto dedicarsi a tutt’altri processi, invece di farsi guidare dai loro pregiudizi e andare alla ricerca di un’ipotesi di reato che non esisteva”, dice al Foglio. “Eppure questo processo ci dice molto anche delle derive del circuito mediatico e politico. Perché sono abbastanza sicuro che una parte della stampa continuerà a dire che una trattativa c’è stata e che i giudici della Cassazione non sono adatti a esprimersi in quanto troppo distanti dalla drammaticità dei fatti. Ecco, questo calpestio delle regole del diritto è aberrante”.

 

Sul Foglio lo abbiamo scritto più e più volte: il processo sulla Trattativa è stato viziato sin dalla sua origine. “Perché da subito si è capito che ci fosse una sproporzione tra l’accertamento di un reato e la volontà di ricostruzione storica. E’ evidente che i pm sono andati all’avventurosa ricerca di un ipotetico reato perché muovevano da un pregiudizio storico-morale. Che peraltro gli ha impedito di definire bene cosa fosse questa Trattativa, visto che nei diversi filoni d’indagine parlano di ipotesi diverse, slegate da una regia unitaria”. Nel ragionamento di Fiandaca, l’inconsistenza dell’accusa è sempre risieduta nell’articolo 338 del codice penale, violenza ai danni di corpi dello stato. Vista dalla prospettiva di un’assoluzione così piena, “per non aver commesso il fatto” nei casi di Mori, De Donno e Subranni, si capisce perché il penalista parli adesso di “realtà piegata a uno storytelling mediatico. La stampa avrebbe potuto fare di meglio, piuttosto che schiacciarsi sulla linea dell’accusa. E non parlo solo del giustizialismo alla Travaglio, anche i grandi giornali come Repubblica hanno rinunciato al loro ruolo di controllo”. 

 

Dopo 11 anni resta la domanda sul perché si sia andati alla ricerca di un quadro coerente che esplicasse quella stagione storica attraverso le aule del tribunale. “Credo che la stessa definizione di Trattativa fosse enfatizzatrice e fuorviante. Si è voluto a tutti i costi considerare coinvolta la politica, quando, anche qualora fosse emerso qualcosa di vicino al quadro accusatorio, avrebbe dovuto riguardare istituzioni come l’arma, semmai”. A proposito di arma, chi risarcirà adesso servitori dello stato che hanno passato anni nei processi, vedendo infangata forse per sempre la propria immagine pubblica? “E come vuoi risarcirli? Hanno perso dignità, onore, speso oltre vent’anni a cercare di difendersi”, risponde Fiandaca con un po’ di sconforto. “Non ho interesse a difendere personalmente gli imputati, ma quello a cui sono andati incontro è ingiusto”. Ingroia, Di Matteo, Scarpinato, Morosini. Possiamo dirlo, dopo tutti questi anni, che il processo sulla Trattativa è servito più che altro a lanciare carriere tra politica e magistratura? “Non so se siano state davvero carriere o tentativi di carriera”, ci risponde allora Fiandaca. “Certo tutto questo è stato reso possibile da una degenerazione tutta italiana: e cioè credere che l’accertamento giudiziario funzioni solo qualora serva a confermare tutte le nostre verità predeterminate. Ma i processi non si fanno con i pregiudizi. E quel che viene stabilito nel dibattimento è più importante di quel che si scrive sui giornali. Forse questo processo servirà almeno a ricordarci quanto in questo paese sottovalutiamo la cultura del diritto”.

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