"E' stato restituito l'onore al Ros, ora basta cialtronate". Parla Mario Mori

Ermes Antonucci

Intervista all’ex generale dei Carabinieri assolto in via definitiva nel processo sulla cosiddetta "trattativa stato-mafia": "Ho sempre avuto la coscienza a posto, ma mi hanno tolto vent'anni di vita"

E’ crollato definitivamente il processo sulla cosiddetta “trattativa stato-mafia”. Ieri, intorno alle 17.30, i giudici della sesta sezione penale della Corte di Cassazione hanno assolto gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno con la formula piena “per non aver commesso il fatto”. Confermata l’assoluzione anche per l’ex senatore Marcello Dell’Utri. Prescritte le posizioni dei mafiosi, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. “E’ una grande soddisfazione – dichiara Mori al Foglio – anche se per vent’anni sono stato sotto processo. Spero che con questa sentenza finiscano anche le ‘trombonate’ di una certa stampa e di certi altri ambienti che hanno lucrato su questa vicenda”. 

 

“Io sono un agonista – aggiunge Mori – Per tutta la mia vita mi sono confrontato con rivali, avversari, nemici. Per questo ho sopportato tutto sommato bene  la vicenda giudiziaria, convinto di avere la coscienza a posto”. Il generale Mori si dice contento soprattutto per l’assoluzione dei suoi ex colleghi Subranni e De Donno: “Io ero il responsabile operativo, loro c’entravano poco”. Il pensiero, infine, non può che andare all’immagine del Ros, il Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri, al quale è stato restituito l’onore infangato in questi anni: “Il Ros è una struttura brillantissima, il miglior reparto dell’Arma e dello stato italiano, però questo esito conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il Ros ha sempre lavorato bene. E per me che l’ho fondato questa è una grandissima soddisfazione”.

 

Il destino ha voluto che il processo sulla Trattativa si concludesse a dieci anni esatti di distanza dall’inizio del dibattimento in primo grado, quello che portò a condanne pesantissime nei confronti di tutti gli imputati. In appello, il 23 settembre 2021, la condanna nei confronti degli ex ufficiali del Ros venne annullata, seppur con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, che ha permesso a coloro che, usando le parole di Mori, hanno lucrato per anni sul mito del patto occulto tra lo stato e Cosa nostra di continuare a farlo. “La Trattativa ci fu, ma non è reato”, hanno continuato a sostenere per mesi gli oracoli dell’antimafia mediatica. Fino a ieri, quando i giudici di legittimità hanno demolito senza scampo il teorema accusatorio. Gli ex ufficiali del Ros sono infatti stati assolti con la formula più ampia “per non aver commesso il fatto”. Le posizioni dei mafiosi Bagarella e Cinà sono invece state dichiarate prescritte in virtù della riqualificazione del reato di violenza e minaccia a un corpo politico dello stato nella forma del tentativo.

 

Secondo i pm palermitani (Antonio Ingroia, che poi abbandonò l’incarico in procura, Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia) fu Calogero Mannino a promuovere la trattativa tra lo stato e Cosa nostra, dopo l’omicidio di Salvo Lima, rivolgendosi ai militari del Ros, che così avviarono un dialogo con i mafiosi, arrivando a trasmettere al governo la minaccia di Cosa nostra, cioè la minaccia di continuare a organizzare stragi se non fossero state alleggerite le condizioni carcerarie per i mafiosi.

 

Un’accusa già di per sé palesemente illogica, come sottolineato dai sostituti procuratori generali della Cassazione: “Se la minaccia è stata ideata a partire dall’omicidio Lima, tanto da fondare la competenza alla procura di Palermo, non si vede come il male ingiusto potesse essere prospettato al fine di ottenere la mancata proroga di provvedimenti che, all’epoca di quell’omicidio, non erano previsti dalla legge (posto che l’art. 41-bis è stato introdotto solo dopo) e non erano dunque neppure stati adottati”.

 

Non a caso, il presunto promotore della Trattativa, Mannino, era già stato assolto in primo grado, in appello e in Cassazione nel filone in rito abbreviato. La verità, insomma, è che arrivati a questo punto, il castello accusatorio costruito dai pm di Palermo (tutti in seguito promossi a incarichi di prestigio) non stava in piedi neanche a voler usare ancor più fantasia.
   

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