covid e giustizia

Le mille contraddizioni dell'indagine sulla gestione della pandemia

Ermes Antonucci

Quella di Bergamo è la prima procura al mondo ad accusare un governo di aver favorito la diffusione della pandemia. Ma l'inchiesta, piuttosto che su prove, sembra basarsi sul "senno del poi" e numeri senza senso

Più che a un’indagine giudiziaria, quella chiusa dalla procura di Bergamo sulla gestione del Covid-19 nei primi mesi della pandemia, assomiglia a un’inchiesta di natura politica e mediatica. Politica perché, con la loro iniziativa penale, i pm bergamaschi sono arrivati a sindacare le scelte assunte dai vertici del governo, della regione Lombardia e delle massime istituzioni sanitarie nella loro legittima discrezionalità politica, in una fase caratterizzata da urgenza, eccezionalità degli eventi e scarsità di informazioni scientifiche sul virus. Un’indagine basata sul “senno del poi”, in cui sostanzialmente si imputa al governo di non aver istituito con i tempi “giusti” la zona rossa nei comuni della Val Seriana, tra cui Alzano Lombardo e Nembro, nonostante l’aumento del numero di contagi nell’area. Tra la fine di febbraio e l’8 marzo 2020, giorno in cui l’intera Lombardia diventò zona rossa, regione e governo decisero invece di intervenire con misure meno drastiche, come la chiusura delle scuole e la sospensione delle manifestazioni. Tutto ciò, a detta degli inquirenti, fu sbagliato.

 

A dimostrarlo sarebbero anche le statistiche elaborate nella sua consulenza per i pm da Andrea Crisanti (peraltro microbiologo, e non epidemiologo), secondo cui la tempestiva applicazione della zona rossa avrebbe risparmiato 4.148 decessi. Da qui l’accusa di epidemia colposa. E un primato: quella di Bergamo è la prima procura al mondo ad accusare un governo di aver favorito la diffusione della pandemia

 

Le contraddizioni dell’indagine sono infinite. Come già è emerso dalla raffica di archiviazioni in tutta Italia delle indagini per epidemia colposa e omicidio colposo nei confronti dei dirigenti delle Rsa, appare difficile – se non impossibile – individuare responsabilità di carattere penale per la gestione di un evento così eccezionale, in completa assenza di informazioni scientifiche circa le caratteristiche del virus, la sua elevata trasmissibilità e la gravità della conseguente malattia. E soprattutto: come individuare un nesso causale tra una decisione di politica sanitaria, peraltro condivisa da una molteplicità di soggetti, e la morte di migliaia di persone?

 

Così, si resta interdetti nel leggere, nell’avviso di conclusione delle indagini della procura di Bergamo, che con le loro condotte l’ex premier Giuseppe Conte e l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, insieme a tutti gli altri indagati (tra cui il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana, il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro e il presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli) avrebbero “cagionato per colpa la morte” di cinquantacinque persone, di cui vengono riportate le generalità. 

 

Ancor più perplessità suscita la stima elaborata da Crisanti sulle vittime che si sarebbero potute evitare: 4.148. Attenzione: non 4.147 o 4.149, ma 4.148. Una fredda statistica, che non si comprende bene quale valenza dovrebbe avere. Fu lo stesso Crisanti un anno fa, quando ci fu una prima fuga di notizie sulla sua relazione, a dichiarare: “Sono dati che non vogliono dire nulla, decontestualizzati.   Ovvio che un lockdown al giorno zero avrebbe evitato tanti morti, ma non ha senso dire ciò che sarebbe successo se la misura di zona rossa non era esigibile”. Non ha senso, ma sui giornali non si parla d’altro che dei “quattromila morti evitabili”.

 

L’indagine della procura di Bergamo non colpisce l’attenzione soltanto per la sua tendenza a travalicare nel campo della discrezionalità politica, ma anche per il suo alto tasso di mediatizzazione. Già nel marzo 2021, la pm Maria Cristina Rota lanciò una dichiarazione clamorosa in tv: “Non escludo che possano essere indagati esponenti del ministero della Salute”. Pochi mesi dopo, il procuratore capo di Bergamo, Antonio Chiappani, rilasciò una serie di interviste incentrate sui contenuti dell’indagine portata avanti dal proprio ufficio. In una di queste, Chiappani si spinse persino a dichiarare che il ministro Speranza “non aveva raccontato cose veritiere”, prima di correggere il tiro e precisare che contro il ministro non vi erano elementi per alcuna contestazione. 

 

Lo scorso fine gennaio, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, Chiappani ci era ricascato. A indagine ancora aperta dichiarò: “Questo ufficio ha accertato gravi omissioni da parte delle autorità sanitarie, nella valutazione dei rischi epidemici e nella gestione della prima fase della pandemia”.

 

Mercoledì, a coronamento di questo percorso mediatico, le persone coinvolte nell’indagine hanno appreso di essere indagate ancor prima di ricevere l’avviso di garanzia, leggendo i giornali.

 

Ma il processo mediatico non è finito. Così giovedì mattina, tanto per mettere in chiaro le cose, il procuratore Chiappani ha rilasciato un’intervista alla trasmissione “Agorà” e un’altra a Radio 24. Prima ancora al quotidiano la Repubblica aveva espresso la sua soddisfazione: “Noi il nostro dovere lo abbiamo fatto”. Quale? “Soddisfare la sete di verità della popolazione”. E pensare che per qualche ingenuo i pm dovrebbero semplicemente perseguire i reati.