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l'intervista

“Le intercettazioni sono violenza mediatica. Quella del ‘bavaglio' è una lagna ipocrita”. Parla Michele Serra

Salvatore Merlo

"Il problema è dei giornali che le pubblicano spacciando il vouyerismo per libertà di stampa. Noi giornalisti siamo spesso pronti a gridare alla censura, meno pronti a prendere le misure del nostro lavoro e dei nostri limiti". Intervista

Non gli piace la parola “bavaglio”, quella che alcuni giornali utilizzano per contrastare la sola idea che si possa limitare la pubblicazione delle intercettazioni. Non la condivide. “Noi giornalisti siamo una categoria che confonde spesso la libertà di stampa con l’impunità di casta”, dice. E infatti Michele Serra pensa che le intercettazioni siano state, e siano ancora, uno strumento di violenza mediatica. “Se il colpevole finisce in galera o sputtanato sui giornali, per lui quello è rischio d’impresa, lo mette nel conto. Ma se l’innocente finisce in galera o finisce sputtanato sui giornali, quello è un uomo morto. Ecco. Questo i giornali non lo capiscono. Chi fa il nostro mestiere invece dovrebbe partire da questa orrida certezza: l’innocente muore”. Così, da uomo di sinistra quale ovviamente è, Michele Serra, uno dei più importanti giornalisti del nostro paese, si chiede infine anche quale sia la ragione per la quale  la “sua” sinistra stia di fatto difendendo, ancora oggi, l’abuso delle intercettazioni. Per ragioni forse strumentali. Politiche. “Dai tempi di Tangentopoli la sinistra ha sposato una specie di scorciatoia giudiziaria. Ciò che non poteva essere affrontato politicamente trovava una insperata soluzione giudiziaria. Non solo non ha funzionato (il potere, se questo era il problema, è arrogante come prima, la corruzione più vitale di prima), ma ha avuto effetti collaterali devastanti. La cultura delle garanzie, un tempo cavallo di battaglia della sinistra, è andata a pallino. E la spirale moralistica ha alimentato il populismo”.

Nella sua storica rubrica su Repubblica, “l’Amaca”, recentemente Serra ha scritto che se vedesse una sua intercettazione telefonica su un giornale, un’intercettazione non di rilievo pubblico, si sentirebbe violato. Insomma gli girerebbero le scatole.  Ma cos’è il “rilievo pubblico”? Qual è il famoso confine che giustificherebbe la pubblicazione di una conversazione privata, e penalmente irrilevante, su un giornale? “Bella domanda. Io ho scritto che riconosco agli inquirenti (giudici, polizia) un diritto di intrusione – chiamiamolo così – che non riconosco ai media, almeno non nella stessa misura. Il problema è che il ‘rilievo pubblico’ non è un criterio oggettivo. Cambia, e parecchio, a seconda dei punti di vista, delle opinioni personali, della politica editoriale. Esempio classico: per un giornale governativo sputtanare un politico di opposizione è sicuramente molto più ‘rilevante’. E viceversa. Esattamente per questa ragione (il rilievo pubblico è un concetto soggettivo) il dibattito è destinato a rimanere inconcluso per l’eternità, e credo che nessun aggiustamento di legge, o pronunciamento politico, basterà a trovare una regola condivisa. Resta la facoltà, per ciascun giornale e ciascun giornalista, di riflettere sul proprio mestiere e sul proprio potere. Ma mi sembra una facoltà molto inutilizzata”.

Anni fa l’ex ministro Federica Guidi, non indagata, è finita sui giornali perché si lamentava del suo rapporto di coppia con il suo fidanzato (indagato e poi assolto). La frase è notissima: “Mi tratti come una sguattera del Guatemala”. Dopo qualche giorno dalla pubblicazione, sugli stessi giornali che l’avevano data, partì anche un filone di interviste  a “sguattere del Guatemala” che si sentivano insultate dalla Guidi. Sembra un film comico. Ma forse è drammatico. “Beh, se sei il ministro Guidi è sicuramente drammatico. E anche se fai la colf e vieni dal Guatemala. Capisco il sottile godimento del gossip, ma non riesco a non considerare tra i diritti della persona anche il diritto al rispetto della sua vita privata”. 

E siamo sempre lì: rispetto della vita privata o diritto d’informare, cosa prevale? “Ovvio che se si scopre che un politico che prende voti come paladino della famiglia tradizionale, e poi nella sua vita privata frequenta i bordelli, o anima orge gay, un interesse pubblico c’è, ed è pure evidente: si tratta di smascherare un ipocrita che inquina il discorso pubblico. Ma in molti altri casi il diritto/dovere di informare c’entra come i cavoli a merenda. Si tratta solo di raggranellare qualche lettore in più, incrementare il voyeurismo di massa,  accanirsi contro un avversario politico per il puro piacere di farlo. Con un’aggravante: che la lagna corporativa contro ‘il bavaglio’ approfitta comodamente di una causa nobile e nevralgica, che è la libertà di stampa, la libertà di espressione. Ci sono cronisti di mafia che rischiano la vita, e ci sono giornalisti rovinati economicamente da cause civili micidiali. Parlare solo di intercettazioni è così determinante, o piuttosto è fuorviante? Mi faccio anche un’altra domanda: che cosa attenta di più alla libertà di stampa, eventuali limiti alla pubblicazione di documenti giudiziari, oppure il gigantesco mutamento degli assetti editoriali e del modo di produzione delle ‘notizie’? Molte ‘notizie’ vengono confezionate non più per scelta redazionale ma sulla base di selezioni algoritmiche e pubblicitarie. La decisione di pubblicare qualcosa, e non qualcos’altro, è pesantemente influenzata (eufemismo) dalla dipendenza delle imprese editoriali da vari service esterni alle redazioni. Giudicate voi quanto si è parlato di intercettazioni, nelle ultime settimane, e quanto di questa stravolgente metamorfosi strutturale dell’informazione”.

E allora, è evidente, c’è un problema che riguarda la categoria cui apparteniamo, quella dei giornalisti. Incapaci di riflettere su se stessi. Che lavoro facciamo? Alcuni giorni fa in un paio di  articoli è comparsa questa intercettazione: un Carneade di consigliere regionale di FdI a Brescia, poiché arrabbiatissimo con Daniela Santanchè, dice una cosa del genere: “Quando morirà, perché morirà, cagherò sulla sua bara durante la cerimonia”. Forse fa ridere. Però allo stesso tempo uno può legittimamente chiedersi quale sia esattamente il rilievo pubblico di questa informazione sulle urgenze per così dire viscerali del consigliere di Brescia. “Guarda, io sono il tipico giornalista seduto”, risponde Serra. “Per dirla tutta non so nemmeno se sono ancora un giornalista. Diciamo che scrivo sui giornali, e non è la stessa cosa. Ma dopo trent’anni di parole scritte da seduto non ho dimenticato che mestiere difficile e importante sia fare il cronista, fare inchieste. Ho letto quell’articolo. Pubblicare quella frase non era un atto gratuito, serviva a rendere il clima di un durissimo regolamento di conti politico all’interno di Fratelli d’Italia. Ma ho pensato, leggendola, che sono contento di non fare più il cronista. Ogni due parole mi domanderei se è lecito scrivere quello che sto scrivendo, e sulla base di quale autorità, o di quale investitura, mi sento autorizzato a scriverlo. Credo che sarei stato un pessimo giornalista d’inchiesta. Un cronista riluttante. E’ anche per questo che nella vita ho fatto tutt’altro”.    

Ecco, appunto. Ti interrogheresti. Noi giornalisti non dovremmo chiederci ogni tanto che mestiere facciamo? Anche senza scomodare la deontologia.  
Apparteniamo a una categoria che riflette sulle grandi questioni che riguardano la nostra epoca, scriviamo dei diritti civili in Iran e dell’aborto negli Stati Uniti, del protezionismo di Biden e delle necessarie risposte europee, analizziamo il comportamento della Bce e della Cina, di Putin e di von der Leyen, invitiamo i governi a fare le riforme, indichiamo soluzioni e pericoli, poi però non siamo in grado di riflettere su noi stessi? “No, evidentemente non siamo in grado. Ci sono giornali che hanno sputtanato vite altrui in totale spensieratezza, sulla base del loro puro e semplice arbitrio, e in conclamata falsità, con sanzioni ridicole, o del tutto assenti, da parte del cosiddetto Ordine, che per statuto dovrebbe occuparsi della famosa deontologia professionale. Lo ripeto, siamo una categoria che confonde spesso la libertà di stampa con l’impunità di casta. Pronti a gridare alla censura e al bavaglio, meno pronti a prendere le misure del nostro lavoro e dei nostri limiti. Dare le notizie è un dovere e un servigio alla democrazia, accanirsi senza rispetto umano su chi finisce nei guai, perfino quando è colpevole, è una manifestazione di insensibilità. Non solo di insensibilità umana, anche di insensibilità democratica, perché inquina il discorso pubblico. Lo avvelena e lo falsifica. E’ il contrario di quanto la stampa presume di essere, e dovrebbe proprio essere: un servizio di tutela dell’opinione pubblica”.

E allora Serra in realtà sembra dire che il problema non è nemmeno la legge sulle intercettazioni. Che peraltro già c’è, anche se largamente non applicata dai magistrati che dovrebbero selezionare e cancellare dai fascicoli pubblici quelle intercettazioni che non hanno rilievo penale. Non tutti lo fanno. Quindi i giornalisti pubblicano. Assai spesso senza farsi domande. “Parlando della sua categoria il giudice Woodcock, certamente non diventato celebre per esitazione garantista, ha detto una cosa sacrosanta: ci sono le leggi, ‘il resto è rimesso al senso di responsabilità degli esseri umani espressione delle istituzioni’. Questo vale anche per noi giornalisti. Accapigliarsi sulle regole può perfino essere utile, ma è del tutto inutile se manca ‘il senso di responsabilità degli esseri umani’”. 

Ai tempi di Cuore, la grande rivista satirica nata con l’Unità e fondata da Serra, non ci si andava mica tanto piano. “Certo che no, ma era satira. Una volta facemmo questo titolo ‘Omicidio Pecorelli, si alleggerisce la posizione di Andreotti: non era il mandante, era il killer’”. Fa ridere. “Infatti. E’ satira. Un altro mestiere. L’esagerazione, la provocazione... Io oggi in giro vedo   giornalisti picchiatori e giornali urlatori che amano passarsela da paladini della verità, e pretendono che chiunque avanzi dubbi sui limiti dell’informazione sia un venduto al potere, o un cacasotto. E questa non è satira”. E’ giornalismo andato a male? “Anni fa uno di questi indefessi testimoni della ‘verità’, che non nomino perché adoro gli omissis,  mi accusò di essere diventato garantista perché ‘noto renziano’. Non era nemmeno una fake, era una coglionata. Gli scrissi privatamente per farglielo notare, non mi degnò di due righe di risposta. Il fanatismo, e la violenza morale che ne consegue, non è un problema solo della politica. C’è chi crede che la verità sia più vera se viene servita come una testa mozza su un vassoio. Sono felice di non fare il suo stesso mestiere”.
 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.