Il futuro di Davigo e quello delle istituzioni
Perché nel processo di Brescia più che la sorte personale dell'ex pm si decide quello della nostra democrazia: dal giudizio si saprà se il Csm può diventare una centrale di dossieraggio legalizzato, capace di condizionare le istituzioni
Piercamillo Davigo ci ha querelati per il tema di cui tratteremo. Chissà se lo farà di nuovo. Anche se ciò da cui si ritiene diffamato, e che abbiamo riportato, sono i fatti per cui è imputato a Brescia: la rivelazione, in violazione delle proprie funzioni di componente del Csm, dei verbali di Amara sulla fantomatica “loggia Ungheria”, consegnatigli dal pm di Milano Paolo Storari (già assolto in appello), al solo scopo di motivare, a un numero consistente di membri del Csm e a un parlamentare del M5s, le ragioni della rottura dei suoi rapporti personali con il consigliere del Csm Sebastiano Ardita. Se nel riportare questi fatti di cronaca c’è diffamazione, Davigo dovrebbe prendersela con i suoi ex colleghi – pm e giudici – che lo hanno mandato a processo.
Ma ciò che emerge dal processo di Brescia, dalle testimonianze del consigliere del Csm Nino Di Matteo e dell’ex sen. Nicola Morra, non fa che confermare il ragionamento del Foglio che Davigo ha ritenuto diffamatorio. Che non riguardava la sua sorte personale, ma la ricaduta del suo caso sulle istituzioni. Dicevamo che se Davigo venisse condannato per rivelazione del segreto, tutto sommato sarebbe qualcosa di fisiologico: sebbene sia grave che un componente del Csm commetta un reato, è qualcosa che può accadere. Si tratterebbe di un problema individuale. Sarebbe, invece, più inquietante il contrario: se la giustizia stabilisse che la sua condotta è legittima. A quel punto sarebbe una disfunzione istituzionale. Perché la circolazione fuori dalle procedure di atti coperti da segreto ha alterato il funzionamento di un organo costituzionale come il Csm.
Davigo, come è emerso dalle indagini e dalle testimonianze, ha oggettivamente delegittimato un membro del Csm usando atti d’indagine secretati, dicendo ad altri consiglieri che Ardita era indicato come appartenente a una loggia e suggerendo di prendere le distanze da lui. Nino Di Matteo, consigliere del Csm che aveva ricevuto quegli stessi verbali con plico anonimo, nella testimonianza a Brescia dice che quelle accuse erano “calunniose e risibili, individuabili da chiunque avesse un minimo conosciuto Ardita”. Qualcosa, insomma, di cui avrebbe dovuto facilmente rendersi conto Davigo che di Ardita era un amico stretto e compagno di corrente. Di Matteo aggiunge che si è trattato di “una manovra per screditare Ardita e colpirlo nella sua funzione di componente del Csm”. Anche perché “da un po’ di tempo era in maniera incomprensibile emarginato nel Csm”, era cioè stato isolato dai colleghi a cui Davigo aveva riferito il contnuto dei verbali di Amara.
Qualcosa di analogo dice Nicola Morra, ex presidente della Commissione antimafia, a cui, in un dialogo privato sulle ragioni del litigio con Ardita, Davigo rivela gli atti e la presunta appartenenza di Ardita a una “associazione che imponeva vincolo della segretezza”. Morra dice ai giudici di Brescia di essersi sentito “emotivamente scosso” da questa rivelazione su Ardita, di cui aveva stima, al punto che tramonta l’ipotesi di affidargli una consulenza nella Commissione antimafia sulla massoneria.
In pratica, a prescindere dalla buona fede o meno, dal fatto cioè che le dichiarazioni di Amara fossero palesemente calunniose o meno, le azioni di Davigo hanno comportato una delegittimazione e un isolamento di Ardita, con una ricaduta sulle dinamiche e sugli equilibri del Csm. Se questa condotta fosse ritenuta lecita, vorrebbe dire che un membro del Csm può ricevere atti segreti dai pm, magari della sua corrente, e usarli per regolare i conti con amici e nemici. Il Csm diventerebbe una centrale di dossieraggio legalizzato, con un potere di condizionamento su qualunque persona o istituzione. In ballo c’è di più della sorte di Davigo: quella delle istituzioni.
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