Federico Cafiero de Raho (Ansa)  

dalla giustizia alla politica

La casa degli eroi. Storia della procura nazionale antimafia

Riccardo Lo Verso

L’aveva pensata Falcone. È diventata una fabbrica di candidature per la sinistra manettara

Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”. Aveva ragione Agatha Christie. Solo che le porte girevoli tra magistratura e politica spengono la suspense dei romanzi gialli. La Direzione nazionale antimafia non è diventata la super procura immaginata da Giovanni Falcone, in compenso – ed è una certezza – spalanca le porte del Parlamento. E’ successo ancora. Per la terza volta, appunto. Dopo Pietro Grasso e Franco Roberti, un procuratore nazionale, Federico Cafiero De Raho, si candida alle elezioni. La politica ci ha abituato all’idea malsana che per apparire giusta e onesta sia necessario fare eleggere un magistrato. Lo step successivo è stato intruppare il magistrato per eccellenza, e cioè il capo della Direzione nazionale antimafia. La candidatura di Cafiero De Raho rientra in un cliché stantio. Quando un partito è in crisi, di idee e di consenso, si affida all’immagine salvifica dei cavalieri senza macchia e senza paura: i pubblici ministeri. Come se fossero santini religiosi o amuleti pagani per scacciare i tempi bui.

 

Non è un caso che sia stato Giuseppe Conte a chiamare Cafiero De Raho al capezzale del malandato Movimento 5 stelle. L’ex avvocato del popolo per la verità deve essere davvero convinto che serva una toga per la catarsi dei grillini smarriti. E così ha chiesto la partecipazione al rito di purificazione magica, in cambio di un posto nella lista dei blindati, anche dell’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato. La carica evocativa vale più di ogni proposta politica. Vuoi mettere il vanto di portare in Parlamento i paladini dell’Antimafia. Grasso ha tracciato la strada. Una lunga carriera in magistratura, la sua. Era già stato giudice estensore della sentenza del maxi processo a Cosa nostra e procuratore di Palermo. Rispondeva all’identikit perfetto di coloro che sono convinti che basti la militanza antimafia per essere o far credere di essere migliori – politicamente, s’intende – degli altri.

 

Nel 2013, allo scadere del mandato alla Direzione nazionale antimafia, Grasso divenne parlamentare del Pd di Luigi Bersani. Un minuto dopo era presidente del Senato. Nessuna esperienza politica all’attivo, ma il suo autorevole trascorso di giudice antimafia lo fiondò fino al ruolo di seconda carica dello Stato. Mica male per un neofita. Quindi la nuova elezione nel 2018 con Liberi e uguali, di cui divenne leader dopo la scissione interna del Partito democratico. Si rivelò un leader impalpabile, perché una cosa sono le aule di giustizia, le commemorazioni e i discorsi ufficiali ridondanti di retorica e metafore, ben altra la guida di un partito che deve pensare, proporre e attuare una proposta politica. La luce dell’antimafia non bastava più. Di recente Grasso si era avvicinato al Pd, ma non è stato sufficiente per ottenere una nuova candidatura. E’ stato escluso dalle liste dal segretario Enrico Letta. 

 
Dopo Grasso alla guida della procura nazionale antimafia arrivò Roberti. Vi rimase fino alla pensione, nel 2017. Un anno da assessore con delega – udite, udite – alla Sicurezza nella giunta regionale della Campania di Vincenzo De Luca e nel 2019 il grande salto. Il Pd, allora guidato da Nicola Zingaretti, lo scelse come capolista al sud per le elezioni europee al grido: “La lotta alle mafie e alla criminalità organizzata è una nostra priorità e con Roberti avrà una nuova forza anche in Europa”. Da allora siede a Strasburgo, lì dove i discorsi si fanno altissimi e la parola legalità diventa eterea. 


Conte si affida oggi a Cafiero de Raho, capolista del Movimento 5 stelle in Calabria e in un collegio dell’Emilia Romagna. Dal profondo sud all’operosa regione rossa dove, sono state le prime parole della sua nuova avventura, “le organizzazioni criminali reinvestono il denaro sporco, inquinando il tessuto imprenditoriale ancora sano”. Il neo candidato ha messo subito le cose in chiaro. Non importa che sia andato in pensione, né che in caso di elezione diventerà un deputato, egli è e resta un pubblico ministero.  Il Movimento 5 stelle torna alle origini manettare nel tentativo disperato di resistere. La valanga dei voti è l’ombra di quel che erano. Memoria di un passato tradito, il bluff è stato smascherato. I grillini ora corrono il rischio di scomparire. E allora si aggrappano alle stimmate dell’antimafia nella speranza che valgano più di ogni simbolo di partito, che bastino a cancellare le contraddizioni che li hanno inghiottiti. Non è forse per predicare una nuova campagna di moralizzazione che Giuseppe Conte ha scelto Cafiero De Raho? L’ex procuratore nazionale antimafia si è subito sintonizzato sulla lunghezza d’onda del suo leader. Se l’è presa con chi in questa campagna elettorale non parla di “criminalità organizzata e di capitali mafiosi”, specie ora  che stanno arrivando i fondi del Pnrr e c’è una guerra davanti alla porta di casa nostra.

 

Non resta che attendere per capire se Cafiero De Raho andrà o meno a ingrossare il catalogo delle delusioni. Lungo, infatti, è l’elenco di coloro che, in barba alla separazione dei poteri, è uscito dai palazzi di giustizia per entrare in Parlamento. Promettevano di cambiare il mondo, ma la loro impronta politica è stata nulla o quasi. Sono stati un trojan iniettato nei palazzi della politica che ha fatto cilecca. Agli atti restano le mirabolanti promesse da prima pagina. Parole seducenti, pronunciate muovendo dalla convinzione, accompagnata da una buone dose di egocentrismo e un pizzico di presunzione, che serva un magistrato per fare funzionare meglio le cose. Di esempi che vanno in direzione contraria sono zeppe le cronache politiche. Il principio dei corsi e ricorsi storici introduce nell’agone politico la figura di Cafiero De Raho. Agli elettori l’ardua sentenza, anche se correndo in un collegio blindato la campagna elettorale si affronta con meno patemi. Ci si prepari, dunque, alla nuova crociata parlamentare del bene contro il male con il consueto bagaglio di promesse. 


Già, le promesse. Le stesse a cui non può sottrarsi chiunque arrivi alla Direzione nazionale antimafia. Quando finirà la latitanza di Matteo Messina Denaro? è la prima domanda che viene rivolta. La fuga dell’ultimo dei padrini tiene in piedi la baracca. Acciuffarlo consegnerebbe alla storia il magistrato che riuscirà ad ammanettarlo. Per evitare di coltivare illusioni è meglio non dare credito agli annunci a buon mercato. “Ora puntiamo al boss trapanese Matteo Messina Denaro”: Pietro Grasso, 2009. “Dei capi di Cosa nostra ne manca solo uno, Matteo Messina Denaro. Lo prenderemo”: Franco Roberti, 2015. “Sono convinto che lo arresteremo a breve… nel giro di non più di un anno. La mia esperienza personale mi induce a pensarlo”: Cafiero De Raho, 2019 e 2020. L’ultimo ex procuratore, dopo essersi lanciato in un doppio messaggio di speranza, pronunciò una frase sibillina a scopo precauzionale: “Non si può non arrivare all’arresto, a meno che non ci siano forze contrarie”. Musica per le orecchie di chi crede che la latitanza del capomafia trapanese sia frutto di misteriosi accordi siglati trent’anni fa. Roba da massimi sistemi criminali, la cui analisi spetta proprio ai ventuno magistrati che occupano le stanze della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. 


Il ruolo delle mafie – ’ndrangheta, camorra, Cosa nostra e sacra corona unita – nella società italiana viene trattato in lunghe relazioni, frutto del coordinamento delle varie procure distrettuali del paese. La Dna coordina e sovrintende. Molto studio, pochissima operatività. Sembra il catasto dell’antimafia. Eppure negli anni Novanta era nata con altri propositi. Per fortuna era anche un’altra Italia. Allora la mafia seminava bombe e morte. La super procura doveva nascere a immagine e somiglianza di Giovanni Falcone. Stop al provincialismo e al protagonismo giudiziario dei singoli uffici e via libera a un organismo capace di offrire una riposta complessiva allo strapotere dei boss. Non mancarono le polemiche. Qualcuno riteneva che si stesse concentrando troppo potere nelle mani di un piccolo gruppo di magistrati. Tre decenni dopo le armi della Dna sono rimaste spuntate ed è diventata un ufficio dove si approda, nel caso dei capi, negli anni che precedono la pensione (e la le candidature in politica) oppure, nel caso dei ruoli subalterni, per rimpolpare il curriculum in attesa di nuovi incarichi operativi. Una stazione di passaggio piuttosto comoda. Prima o poi si presenteranno nuove opportunità e attenderle affacciati al balcone romano non è poi così male. Nel frattempo i magistrati della Dna supportano, coordinano, raccolgono dati, studiano i fenomeni di criminalità organizzata e terrorismo, esprimono pareri non vincolanti, curano i rapporti con le autorità giudiziarie di paesi stranieri.


 I procuratori nazionali antimafia dirigono il traffico, evitando che procure troppo esuberanti finiscano per pestarsi i piedi. Toccò a Grasso ad esempio nel 2011 far siglare una tregua ai capi dei pubblici ministeri di Palermo e Caltanissetta, Francesco Messineo e Sergio Lari. Litigavano per Massimo Ciancimino. I nisseni si sentirono scippati dai palermitani dell’inchiesta che portò all’arresto per calunnia del figlio di don Vito, l’ex sindaco mafioso. Dopo avere creduto a lungo alle fantasie di Ciancimino jr, dopo avere lasciato che il supertestimone della trattativa stato-mafia reggesse il timone durante gli interrogatori, dopo che il procuratore aggiunto Antonio Ingroia lo definì una “icona dell’antimafia”, i pm palermitani scoprirono che Massimo Ciancimino aveva falsificato un documento. Inserì il nome dell’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, in una lista di servitori infedeli dello stato attribuita al mente e alla penna del padre. La fantasmagorica collaborazione di Ciancimino jr era al capolinea. A Palermo, dove era stato pompato e celebrato come l’uomo della provvidenza, cercarono di salvare la faccia, dopo che a Caltanissetta Ciancimino jr era stato mollato da tempo. Come dare credito a un testimone che aveva identificato il signor Franco, il fantomatico 007 delle trame oscure, in Ugo Zampetti, segretario generale della presidenza della Repubblica. Una vicenda talmente ridicola da non meritare alcun commento. Grasso mise la pace. Salvò gli equilibri fra procure. 

 

Il successore, Franco Roberti, dovette affrontare invece una delicata questione tutta interna alla Dna. Si scontrò con l’esuberanza di Gianfranco Donadio. Prima di diventare consulente della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro il magistrato della Dna si rese protagonista di un’indagine “parallela”. Per quattro anni, tra il 2009 e il 2013, se n’era andato in giro per le carceri italiane a sentire decine di testimoni e pentiti. Donadio era convinto che per l’attentato di Capaci sarebbe stata utilizzata una doppia carica esplosiva grazie alla manina dei servizi segreti e deviati. Pur di trovare riscontri alla sua personale chiave di lettura sulle stragi di mafia del ‘92 Donadio aveva invaso il campo di cinque procure: Palermo, Caltanissetta, Firenze, Catania e Reggio Calabria. In un rigurgito di operatività Donadio aveva messo in crisi l’intero sistema che traballò ma, come sempre accade, si compattò per auto proteggersi. Alla fine il Csm archiviò il procedimento a suo carico. Si disse che in fin dei conti non aveva fatto nulla di male. Di sicuro ha contribuito a dare vita al mito di “faccia da mostro”. A Donadio si deve, infatti, l’interrogatorio di Vincenzo Lo Giudice, un tempo a capo di uno dei più potenti clan di Reggio Calabria. Il “nano”, così è soprannominato Lo Giudice, si era “dimenticato” di raccontare che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro”. Una versione che tanto piaceva e piace ai militanti della trattativa che si erano turati il naso di fronte all’olezzo dei racconti di chi, Lo Giudice appunto, prima di pentirsi aveva scritto due memoriali per accusare magistrati e poliziotti di averlo obbligato a raccontare fesserie.


Anche per Cafiero De Raho non è filato tutto liscio lungo i binari dell’ovvietà. Fu lui a espellere Antonino Di Matteo, all’epoca sostituto della Dna e oggi al Csm, dal pool d’indagine sulle stragi. Gli contestava un’intervista alla trasmissione “Atlantide” sui mandanti occulti delle bombe del 1992. Lo accusava di avere anticipato temi di indagine, di avere tradito la fiducia dei colleghi delle procure. Di Matteo reagì sbattendo la porta della Dna e si candidò con successo al Csm. Un anno dopo Cafiero De Raho ci ripensò. Fece sapere di avere voluto evitare “aggravi procedurali e decisionali in un momento particolarmente delicato per la svolgimento delle funzioni e l’immagine della magistratura”. Erano i giorni del Palamara gate. Pace fatta fra Cafiero De Raho, candidato dei Cinque stelle, e Di Matteo, a lungo corteggiato dallo stesso movimento. Quando e se Nino Di Matteo dovesse scegliere di rientrare alla Direzione nazionale antimafia potrà riprendere il suo posto nel pool che si occupa di stragi e delitti eccellenti. Non troverà più Cafiero De Raho che con altissima probabilità diventerà un parlamentare della Repubblica. Ci sarà Giovanni Melillo, neo procuratore antimafia che almeno finora non ha fatto dichiarazioni sulla imminente cattura di Messina Denaro. E’ già un passo in avanti. Chissà se un giorno il suo nome allungherà la lista dei procuratori nazionali corteggiati dalla politica e candidati.

 

Nel frattempo si potrebbe anche pensare a una formula di garanzia. Non si possono bloccare le personali ambizioni di chi si candida e neppure castrare le illusioni di chi rincorre una ex toga per sembrare migliore degli altri. Le prime sono legittime, per le seconde non c’è cura. C’è però una questione delicata sul piatto. I procuratori nazionali antimafia sono stati per anni custodi del materiale informativo, che è e deve restare riservato, sulle indagini svolte dalle procure italiane. Nessuno, per carità, vuol essere malpensante o mettere in dubbio la fedeltà di un ex magistrato. Un periodo di cuscinetto fra la dimissione della toga e l’ingresso in Parlamento potrebbe servire per apparire, oltre che essere, al di sopra di ogni sospetto. Si potrebbero mettere delle regole visto che gli ultimi tre capi della Dna sono scesi in politica. E tre indizi fanno una prova.