Pecorella: “Salvini mai stato garantista. Il fallimento dei referendum sarà un boomerang”

Ermes Antonucci

Per l'avvocato, giurista ed ex parlamentare di Forza Italia, il flop dei referendum sulla giustizia è stato un “disastro annunciato”: "Il segretario della Lega è sempre stato un giustizialista. Non ha avuto nemmeno il coraggio di sostenere i quesiti che aveva proposto"

Attraverso i referendum Salvini ha cercato di accreditarsi come garantista, soprattutto attorno al tema dello strapotere della magistratura, nonostante sia sempre stato un giustizialista. La cosa peggiore è che appena si è accorto che i referendum rischiavano di essere un fallimento, a causa del disinteresse della gente, è scomparso dalla scena. Non ha avuto nemmeno la coerenza e il coraggio di sostenere i quesiti che aveva proposto”. Intervistato dal Foglio, Gaetano Pecorella, avvocato, giurista, ex parlamentare di Forza Italia, commenta ciò che definisce il “disastro annunciato” dei referendum sulla giustizia (la consultazione referendaria, con il 21 per cento di affluenza, è risultata la meno partecipata della storia repubblicana). Un disastro annunciato, spiega Pecorella, non solo per lo scarso appeal nell’opinione pubblica di diversi quesiti referendari, ma soprattutto “perché quando un partito, in questo caso la Lega, si intesta un referendum automaticamente determina uno scontro politico con gli altri partiti”.

 

“I referendum erano in linea con la tradizione storica dei Radicali della difesa dei diritti, ma ciò che ha fatto Salvini, come fa sempre, è stato quello di apparire come protagonista. Ha messo da parte le altre forze che potevano sostenere i referendum, come i Radicali e l’Unione delle camere penali. Ma quando è emerso il rischio concreto di una sconfitta ha lasciato che i referendum andassero per conto loro, senza nessuno che li sostenesse. E’ chiaro che non era credibile quando ha proposto i quesiti e ancor meno lo è stato quando si è messo da parte di fronte al rischio di una sconfitta”, afferma il penalista, di recente di nuovo nelle librerie con “Utopie. Scritti di Politica penale” (Giappichelli).

 

Un’iniziativa avventata, improvvisata e poco credibile da parte di un politico che, persino nelle settimane precedenti al voto, ha continuato ad alimentare la propria propaganda forcaiola, indignandosi per la scarcerazione di imputati ancora in attesa di giudizio o esultando per l’arresto della famiglia a cui aveva “citofonato” nel 2020 (“Scusi, lei spaccia?”). Un’iniziativa fallimentare, che ora rischia anche di rivelarsi un boomerang per il mondo garantista: “Se il Parlamento dovesse fare alcune riforme nel senso indicato dai quesiti sarebbe facile per i magistrati dire ‘il Parlamento non interpreta la volontà popolare’. E’ chiaro che si è aperto un baratro. Chiunque può utilizzare questo risultato per bloccare le cose come stanno, soprattutto la magistratura”, dice Pecorella.

 

Non a caso, proprio di fronte al flop del referendum, l’Associazione nazionale magistrati è tornata a rialzare la testa, scagliandosi nuovamente contro la riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario e del Csm in discussione in Parlamento, nonostante la figuraccia dello sciopero togato dello scorso 16 maggio.

 

Ma possibile, chiediamo a Pecorella, che in questo paese il garantismo, soprattutto nell’area del centrodestra, debba essere preda delle azioni estemporanee e propagandistiche di un politico, come Salvini, che il garantismo non l’ha mai neanche praticato? “La verità – risponde Pecorella – è che il garantismo non dovrebbe neanche esistere, perché la Costituzione è una serie di garanzie, così come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il fatto che ci debba essere una pattuglia di intellettuali e di politici che lottano per il garantismo vuol dire che questo paese è rimasto profondamente fascista nell’animo”.

 

E a proposito della riforma Cartabia, Pecorella, che per cinque anni ricoprì l’incarico di presidente della commissione Giustizia alla Camera, è netto: “Per me o si fanno riforme che cambiano il sistema o è meglio non farle. Nel momento in cui fai una piccola riforma, questa ti resta sulle spalle per vent’anni. Nessuno oserà più dire che occorre riformare il ruolo del Csm, oppure che bisogna lasciare al Csm la gestione delle carriere dei magistrati ma affidare a una corte suprema i procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati. La maggioranza per una riforma del genere non c’era? Allora era meglio rinviarla”.