(foto LaPresse)

Perché nel campo della giustizia c'è chi dice: lunga vita all'emergenza

Riccardo Lo Verso

Quando agli apparati fa comodo l'incertezza transitoria (che rischia di diventare strutturale). Il coro antimafia contro la riforma dell’ergastolo ostativo

Quanto è confortevole per certe orecchie la parola “emergenza”. Rassicurante come “l’invincibile estate” che Albert Camus scoprì dentro di sé “nel bel mezzo dell’inverno”. Lo rendeva “felice”. Era la tranquillità che vinceva sul caos, la ritrovata speranza in un mondo segnato dalla guerra. Dalla mafia al Coronavirus. Prendete un’emergenza, rendetela eterna e qualcuno ci costruirà sopra un mondo, schiacciando la neutralità etimologica della parola stessa. Ciò è che emergente finisce per essere, sempre e comunque, catastrofico. L’emergency alarm traccia il percorso delle azioni future. Come il filo che delimita il recinto elettrico all’interno del quale sono costretti a muoversi i bovini al pascolo, così l’emergenza ha finito per delimitare il perimetro delle sicurezze umane. Da più di trent’anni la retorica anti mafiosa inchioda il pensiero comune al di qua del recinto. Oltre c’è una normalità che va tenuta nascosta. Gli apparati che trovano nell’emergenza la loro stessa ragione di esistenza sono schierati a difesa dei confini.

Di decreti emergenziali è piena la storia. Come quello che il 28 febbraio 1991 riportò in carcere 44 mafiosi scarcerati nonostante fossero imputati nel maxiprocesso in virtù di una sentenza della Cassazione. L’elenco si apriva con il “papa” di Cosa nostra, Michele Greco di Ciaculli. La “colpa” era stata del giudice della suprema corte che da allora tutti ricordano, più che per il nome e cognome, Corrado Carnevale, per la sua fama di ammazzasentenze. Erano scaduti i termini della carcerazione preventiva, cioè quelli della fase che viene prima di essere giudicati colpevoli. Era un ragionamento in punta di diritto. La Cassazione stabilì che la sospensione della decorrenza dei termini durante il dibattimento non fosse automatica, ma che servisse un’apposita ordinanza da emettersi in data antecedente a quella in cui matura il diritto degli imputati alla scarcerazione. Apparve come una garanzia eccessiva per quel manipolo di mafiosi rinchiusi nelle gabbie del carcere Ucciardone. Il tempo è una variabile che non conta quando sei ancora un presunto criminale. Ed è forse per questo che il paese nei decenni successivi si è impegnato per allungare i tempi dei processi fino a renderli infiniti. Ci sono imputati che restano tali per una vita intera. Onde evitare che si facessero strane illusioni nel 2020 Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia del governo gialloverde, partorì la cosiddetta legge “spazzacorrotti” che aboliva la prescrizione dopo il primo grado di giudizio.

Di fronte alle scarcerazioni degli imputati del maxiprocesso, nel 1991, il governo presieduto da Giulio Andreotti – sì, proprio lui – adottò un decreto legge che negli annali si ricorda solo con il nome del Guardasigilli che ne fu l’autore, Claudio Martelli. Tutti e 44 i mafiosi tornarono in carcere bloccando sul nascere l’indignazione dell’opinione pubblica. La stessa indignazione che esplose nel 2020 quando, in piena pandemia da Coronavirus, fu deciso di scarcerare temporaneamente dei detenuti, mafiosi e non. Fu presto ribattezzata come “la lista dei 376”. Che scandalo! Il fatto che ne beneficiassero anche dei mafiosi oscurava la circostanza che fossero malati, alcuni con patologie gravissime, e che in carcere potevano anche morirci nei giorni in cui il Coronavirus faceva molta più paura di adesso. Un decreto del ministro Bonafede, che ricordava negli effetti quello a firma Martelli, li ha riportati tutti, o quasi, in carcere, spinti dal vento dell’indignazione. In pericolo, si disse, c’era la sicurezza nazionale minacciata dai mafiosi di nuovo liberi. Sembrava di essere tornati al 1991, come se non fosse accaduto nulla nei decenni successivi, come se lo stato non avesse dato prova di sapere reagire alle stragi mafiose. Non importava che fra gli scarcerati ci fossero anche dei malati di tumore. E guai a farlo notare.
Lo stato di emergenza perenne imbavaglia ogni discussione. Chi prova a porre certi temi al centro del dibattito viene subito tacciato dal fronte antimafia di essere un pericolo per la sicurezza nazionale. E’ successo, per ultimo, al ministro della Giustizia Marta Cartabia che ha avuto l’ardire di indicare in Carlo Renoldi il nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Renoldi, la cui colpa sarebbe quella di avere osato criticare l’applicazione del 41 bis, il carcere duro frutto di una modifica dell’ordinamento penitenziario approvata nel giugno 1992 con il superdecreto antimafia Scotti-Martelli. Era la riposta agli eccidi di mafia. Il testo prevedeva che i provvedimenti “cessano di avere effetto trascorsi tre anni dall’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”.

 

In realtà il 41 bis è sempre stato prorogato fino ai nostri giorni, nonostante il mancato rinnovo, in un certo momento storico, sia stato individuato come il segnale del cedimento dello stato alle pressioni di Cosa nostra. I magistrati della procura di Palermo ne hanno fatto il postulato della Trattativa stato-mafia, difeso nei processi con i denti anche a costo di tacere che in nome dell’emergenza tutta la legislazione antimafia è rimasta invariata. Le congetture dei favori concessi ai boss – su tutti la disapplicazione del 41 bis – in cambio dello stop alla stagione stragista si sono scontrate con la realtà e a Palermo sono arrivate le assoluzioni dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, degli ex generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, dell’ex colonnello Giuseppe De Donno. Gli unici condannati sono stati i mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. Segno che la minaccia mafiosa ci fu, con le bombe del 1992 (Capaci e via D’Amelio) e del 1993 (via dei Georgofili a Firenze e via Palestro a Milano), ma gli uomini delle istituzioni imputati non la trasmisero ai vertici governativi. C’era un altro imputato, il boia di San Giuseppe Jato e collaboratore di giustizia Giovanni Brusca – ha beneficiato della prescrizione – che della premialità figlia della legislazione emergenziale ha goduto fino a ottenere la libertà. Con lui lo stato si è dimostrato magnanimo.

Il vessillo del giustizialismo duro e puro è stato issato anche per mantenere l’ergastolo ostativo e cioè l’impossibilità assoluta per i condannati per reati di mafia e terrorismo di accedere ai benefici penitenziari. Vi si accedeva solo diventando collaboratori di giustizia. Un anno fa arrivò la bocciatura della Consulta: anche i mafiosi non pentiti devono poter avere permessi premio o ottenere la liberazione anticipata a condizione che dimostrino di avere reciso i rapporti con la criminalità e di essersi ravveduti. Altrimenti non si comprenderebbe l’utilità dei princìpi, inseriti nella Costituzione, di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e di funzione riabilitativa del carcere. Insomma, non è detto che si resti criminali per sempre. Il fronte antimafia si è ricompattato. A cominciare dal partito dei pm che ha in Antonino Di Matteo, Roberto Scarpinato, Nicola Gratteri e Gian Carlo Caselli i suoi più autorevoli rappresentanti. La riforma dell’ergastolo ostativo ha superato il primo step alla Camera dei deputati e approderà in Senato. I benefici per i detenuti non sono più vincolati alla collaborazione con la giustizia, ma i paletti restano. Sono esclusi i detenuti al 41 bis e i limiti minimi di pena da scontare vengono aumentati a due terzi e a 30 anni per chi è condannato all’ergastolo. Ha votato a favore anche il Movimento 5 stelle dei duri e puri, attirandosi l’indignazione del partito dell’antimafia che ha interpretato come un tradimento la scelta dei grillini. 

La riforma è apparsa ad alcuni addirittura peggiorativa per i detenuti rispetto al passato, ma è bastato che il coro antimafioso si indignasse per fare credere che il paese stesse prestando il fianco ai boss. Che qualcuno volesse liberare i capimafia, tradendo la memoria di chi li ha rinchiusi e in virtù di chissà quale indicibile accordo siglato tre decenni fa e senza data di scadenza. Basterebbe guardare il presente e il passato con obiettività per rendersi conto che lo stato ha raggiunto risultati enormi sul fronte della lotta alla mafia anche se qualcuno continua a credere al dogma delle menti raffinatissime che nascondono segreti e misteri. Infedeli servitori della Repubblica avrebbero strizzato l’occhio a Totò Riina e Bernardo Provenzano e, dopo che i due corleonesi hanno esalato l’ultimo respiro in carcere, proteggono la latitanza di Matteo Messina Denaro. 

Ammettere che la mafia stia messa peggio, ma molto peggio di trent’anni fa, e che l’emergenza di allora non è più attuale, significa minare l’esistenza degli apparati. Nessuno che sia sano di mente chiederebbe di arretrare di un solo millimetro nella lotta alla mafia, ma la valutazione deve essere obiettiva. Le forze investigative hanno a che fare con i rimasugli di una Cosa nostra fiaccata dai blitz. L’indice di mafiosità è dato dalla dedica una canzone neomelodica o dalla richiesta di aiuto per aprire una bancarella abusiva di frutta e verdura nei quartieri popolari di Palermo. Siamo di fronte a quella che il gip Claudia Rosini, respingendo una richiesta di arresto, ha definito “la mafiosità di riflesso, categoria che ancora non ha trovato ingresso nell’ordinamento”.

Il rischio concreto è che restando aggrappati all’emergenza mafiosa si finisca per sbilanciare il peso delle forze investigative messe in campo a svantaggio di settori, ad esempio, come la corruzione nella Pubblica amministrazione. I segnali che il pensiero unico e stantio sia andato in frantumi ci sono tutti. La sentenza della Corte di appello presieduta da Angelo Pellino sulla Trattativa è stato quello più vistoso, ma ce ne sono altri non meno importanti. Si è registrata una diaspora a Palermo. E’ andato in pensione Scarpinato, l’ideologo dei “sistemi criminali”, il contenitore da cui è stato pescato il teorema della Trattativa. Di Matteo, che del processo è stato uno dei principali sostenitori, oggi è al Csm. Antonio Ingroia, che fu il “padre” dell’inchiesta prima ancora che approdasse al dibattimento, oggi fa l’avvocato dopo essere transitato nei posti di sottogoverno per volontà del portabandiera dell’antimafiosità alla presidenza della regione Sicilia, Rosario Crocetta. Il suo successore alla guida del pool, Vittorio Teresi, è in pensione. Francesco Del Bene, altro pm del processo, è alla Direzione nazionale antimafia. Roberto Tartaglia, l’ultimo a fare ingresso nel pool, oggi è al Dap e ci resterà come vice anche del “garantista” Renoldi. 

Il segnale più forte del cambiamento probabilmente arriva non da chi è andato via da Palermo, ma da chi vi è rimasto. Paolo Guido è il procuratore aggiunto che coordina le indagini sull’intera Cosa nostra e sulla ricerca di Matteo Messina Denaro. Nel 2012, al momento di chiudere le indagini preliminari sulla Trattativa, decise non firmare l’atto conclusivo. Era in disaccordo su alcuni punti. In particolare sul coinvolgimento dell’ex ministro Calogero Mannino, di quello dell’ex generale del Ros Subranni e sul giudicato che riguardava Dell’Utri, del quale si sarebbe dovuto tenere conto. La storia e le sentenze gli hanno dato ragione. A reggere la procura di Palermo, dopo la nomina di Francesco Lo Voi a Roma, è Marzia Sabella, tra i magistrati che coordinarono le indagini che portarono nel 2006 all’arresto di Bernardo Provenzano. Per qualcuno il blitz a Montagna dei Cavalli, dove il padrino trascorse l’ultimo periodo di latitanza, sarebbe stata una messinscena. Una resa, spacciata per una grande operazione di polizia. E invece fu un arresto vero. 

Sabella e Guido cercano di sondare terreni finora inesplorati per capire se l’ostinazione con cui si è guardato esclusivamente al passato possa avere finito per fare il gioco di qualcuno che nel frattempo è andato oltre la miseria del pizzo e l’ostentazione mafiosa da social network. Non è lesa maestà sostenere che in Sicilia esistono altre emergenze che meritano di essere affrontate con la stessa rigorosità della lotta alla mafia. Ciò comporterebbe, però, la fine di una narrazione che ha alimentato per decenni il mercato delle prime pagine dei giornali, dei programmi televisivi, dei libri e delle sceneggiature cinematografiche. Sono tutti pronti a rinunciare alla popolarità e alle carriere ottenute scrivendo e parlando di lotta alla mafia?

Si dovrebbe spegnere, d’un tratto, la giostra e fare scendere tutti. Che sarebbe un po’ come dire, terminata l’emergenza Coronavirus, di tornare negli ospedali, nei laboratori o nelle aule universitarie alle nuove star del circo mediatico, gli esperti di Coronavirus. Virologi, infettivologi, epidemiologi, primari di terapie intensive hanno ingolfato l’informazione. Ora che l’emergenza è ufficialmente finita non si rassegnano all’idea della loro non indispensabilità. E allora spostano le nostre paure in avanti, minacciando l’arrivo di quinte e seste ondate di virus. L’emergenza continua e con essa deve restare in piedi il castello delle strutture commissariali che, nel caso della Sicilia, rappresentano una formidabile macchina del consenso.

Si voterà a breve per le elezioni amministrative e per le regionali. Il contrasto al Covid ha consentito di reclutare un esercito di novemila precari, tra sanitari e amministrativi. I contratti sono scaduti il 31 marzo ed è partita la girandola di proroghe di mese in mese. Alcuni sono stati rinnovati fino a dicembre, ben oltre la data delle prossime elezioni regionali di novembre. L’emergenza è finita, ma i precari restano. Di tutto la Sicilia ha bisogno, fuorché di una sacca di nuovo precariato. Eppure è ciò che sembra profilarsi. E’ già accaduto in passato, con altri carrozzoni tenuti in vita con i soldi pubblici. Alcuni sono falliti, lasciando in dote sacche di lavoratori da stabilizzare. C’era una sigla che ne raggruppava parecchi. Aveva un nome attualissimo. Si chiamava “Emergenza Palermo”.
 

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