(foto Ansa)

a torino

Il suicidio di Burzi e il paradosso del sistema giudiziario italiano

Ermes Antonucci

L'ex consigliere regionale del Piemonte, tra i fondatori di Forza Italia, si è tolto la vita dopo essere stato condannato nel processo Rimborsopoli. In primo grado era stato mandato assolto. Il peso della gogna alimentata dal vento rabbioso della protesta, stile Mani pulite

Si è tolto la vita la sera della vigilia di Natale con un colpo di pistola alla testa, Angelo Burzi, 73 anni, ex assessore e consigliere regionale del Piemonte, storico esponente di Forza Italia. Il tempo di lasciare alcune lettere alla moglie, alle figlie e ad alcuni amici, per provare a esprimere le ragioni di un malessere non più sostenibile. Poi il colpo di pistola. Il corpo senza vita è stato ritrovato la mattina di Natale nella sua casa in piazza Castello a Torino. Appena dieci giorni prima, il 14 dicembre, Burzi era stato condannato dalla Corte d’appello di Torino a tre anni di reclusione con l’accusa di peculato nel cosiddetto processo “Rimborsopoli”, legato a presunte irregolarità nell’utilizzo dei fondi destinati ai gruppi consiliari regionali. Con lui, tra gli altri, era stato condannato anche l’ex governatore della Regione, Roberto Cota (un anno e sette mesi). La pena più alta era stata inflitta proprio a Burzi, in quanto capogruppo in Consiglio regionale. Un procedimento penale a dir poco travagliato. Nell’ottobre 2016, il processo di primo grado si era concluso con una raffica di assolti, tra cui proprio Cota e Burzi. Nessun reato di peculato, ma solo spese legittime collegate all’attività politica. Poi il ribaltone in appello (tutti condannati), una pronuncia con rinvio della Cassazione e infine la recente sentenza d’appello bis che aveva confermato la condanna per Cota, Burzi e altri ex consiglieri.

In una delle lettere vergate prima di togliersi la vita, Burzi avrebbe ripercorso proprio la sua vicenda giudiziaria. Si sentiva un innocente condannato ingiustamente, un perseguitato. “Si è ucciso perché si sentiva innocente, perché lo era. Per questo ha fatto quello che ha fatto”, ha dichiarato la moglie Giovanna, non lasciando dubbi sul motivo che ha spinto Burzi a uccidersi: “La condanna che ha subìto per l’inchiesta su Rimborsopoli. Una condanna politica che gli è piovuta addosso senza colpe. Lui era innocente. E lo ripeteva. E’ stato perseguitato per quasi dieci anni”. Anche l’ex governatore Cota è stato esplicito: “Non si dava pace, non riusciva a farsene una ragione. Per lui sono stati dieci anni di calvario, tra perquisizioni, interrogatori, quattro processi su cui non è stata detta ancora l’ultima parola. È giustizia questa?”. Enzo Ghigo, presidente della Regione Piemonte dal 1995 al 2005, ha raccontato al Giornale il senso di umiliazione avvertito negli ultimi anni da Burzi. Si sentiva “perseguitato per non aver fatto reati”, si immedesimava un po’ in uomini come Sergio Moroni, il deputato socialista che ai tempi di Mani pulite si uccise perché non accettava di essere messo alla gogna.

Mani pulite è ormai alle spalle, anche se i frutti amari di quella stagione continuano a caratterizzare ancora oggi la vita pubblica italiana. E’ probabile che nessun magistrato oggi si spingerà a commentare il suicidio di Burzi con le parole usate dal procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio dopo la morte di Moroni: “Si vede che c’è ancora qualcuno che per la vergogna si uccide”. C’è da aspettarsi, però, che a simili conclusioni arriveranno i perenni indignati anti casta, i portabandiera della forca, i difensori d’ufficio delle toghe che affollano alcune redazioni di giornale e i social.

A questi basterà ricordare il paradosso di un sistema giudiziario che assolve in primo grado dalle accuse gli imputati (come Burzi) ma poi, su ricorso del pubblico ministero, condanna in appello quegli stessi imputati per gli stessi fatti. Basterà ricordare le decine di archiviazioni e assoluzioni giunte, in gran silenzio, nel corso degli anni nei confronti di indagati e imputati per “spese pazze” nei consigli regionali (ad esempio in Liguria, in Abruzzo, in Friuli Venezia Giulia, in Emilia Romagna). Basterà ricordare il contesto in cui, nel 2012, lo scandalo dei rimborsi si abbatté sui consigli regionali di tutta Italia. Soffiava, alimentato dagli organi di informazione, il vento rabbioso della protesta, dell’antipolitica, della rivoluzione. Un po’ come ai tempi di Mani pulite.