Giovanni Melillo (Foto Ansa)

Contro lo show dei pm

“Arginare la gogna mediatico-giudiziaria è un dovere etico”, ci dice il procuratore capo di Napoli

Ermes Antonucci

“Bene la legge Cartabia, ma potrebbe non bastare”, dice Melillo

L’entrata in vigore della nuova normativa sulla presunzione di innocenza costituisce “un passaggio di grande valore culturale ed etico, che tutti dovrebbero accompagnare nella sua pratica realizzazione con consapevolezza e ancor più grande responsabilità”. Così, intervistato dal Foglio, il procuratore capo di Napoli, Giovanni Melillo, commenta l’entrata in vigore – dal 14 dicembre – del decreto legislativo con cui il nostro paese ha recepito la direttiva europea sul rafforzamento della presunzione di innocenza. Le norme stabiliscono il divieto per le autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole una persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza definitiva. Di base, inoltre, le informazioni relative alle indagini potranno essere comunicate solo dal procuratore capo e solo attraverso comunicati stampa, mentre le conferenze stampa potranno essere convocate solo “nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti” e con un atto motivato da ragioni specifiche. Vietato anche assegnare alle indagini “denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Princìpi che hanno spinto qualcuno a gridare al “bavaglio” contro la stampa. Un’espressione da respingere secondo Melillo, che però non nasconde alcune preoccupazioni.

 

“La direttiva Ue e le norme introdotte riguardano soltanto i comportamenti delle autorità pubbliche e non dovrebbero incidere sulla libertà di informazione, ma le preoccupazioni espresse non vanno sottovalutate e potrebbero rivelarsi fondate alla prova dei fatti”, dichiara il capo della procura di Napoli. In particolare, per Melillo “la scelta legislativa di irrigidire le forme della comunicazione delle procure della Repubblica, costringendole ‘esclusivamente’ in quelle del comunicato e, nei casi più rilevanti, delle conferenze stampa, sembra giustificare il timore che le nuove regole possano, in concreto, produrre ostacoli al lavoro dei giornalisti e, per eterogenesi dei fini, una paradossale spinta a inabissare una parte delle relazioni con la stampa delle procure e della polizia giudiziaria, anziché promuoverne la trasparenza, la correttezza e la responsabilità”. “Dovrebbe sempre tenersi a mente che gli eccessi proibizionistici di solito non producono buoni frutti, come la realtà di regola si preoccupa di rendere poi evidente anche agli ostinati e agli indifferenti”, spiega Melillo. 


Il procuratore di Napoli respinge l’immagine di una magistratura scarsamente sensibile al problema delle conseguenze prodotte dalla mediatizzazione delle vicende giudiziarie (soprattutto nella fase delle indagini) sul piano individuale, sociale e persino economico: “Credo che la sensibilità della magistratura su questi temi sia molto più matura e diffusa di quanto possa pensarsi, anche se, come al solito, fa molto più rumore un albero che cade piuttosto che una foresta che cresce. Ma sarebbe ipocrita e comunque vano negare l’esistenza del problema, soprattutto considerando le distorsioni aggiuntive prodotte dall’autentica anomalia del nostro sistema, che sembra concentrare ogni attenzione mediatica sulla fase delle indagini e sui suoi sempre precari esiti per trascurare invece ciò che avviene nella fase del giudizio e della formazione in contraddittorio della prova. Un’anomalia ingigantita da quel male profondo della giustizia italiana rappresentato da una sovente intollerabile durata del processo”. Per Melillo, è tuttavia “illusorio pensare che, per quanto possa svilupparsi la sensibilità degli attori del processo e della comunicazione pubblica, le tensioni intorno alle vicende giudiziarie potranno un giorno cessare, come d’incanto. La comunicazione delle procure potrà anche attingere alle più alte vette della correttezza e della sobrietà, ma quando le indagini e i processi toccheranno delicati interessi politici, economico-finanziari o prettamente criminali sarà comunque inevitabile l’insorgere di polemiche e conflitti. Lo dimostra anche un semplice sguardo a ciò che avviene nelle altre democrazie occidentali che preservano il valore dell’indipendenza della magistratura”. 


Limitare la gogna mediatico-giudiziaria comunque è possibile, se si vuole, e lo dimostrano anche le iniziative  di alcune procure. Nel 2019 lo stesso procuratore Melillo ha adottato una circolare che mira, da un lato, a consentire un accesso paritario dei giornalisti ai provvedimenti giudiziari divenuti pubblici e, dall’altro, a evitare che negli atti siano inserite notizie prive di rilevanza penale o potenzialmente lesive della riservatezza delle persone coinvolte e dell’andamento delle indagini. “Potere accedere in condizioni di parità e trasparenza alle informazioni contenute in atti non più segreti – ribadisce Melillo – consente al giornalista di non dovere attingere clandestinamente alle proprie fonti e limita il pericolo che il pubblico ufficiale sia trascinato per la stessa via in sistemi di relazione scivolosi e comunque non coerenti con i suoi doveri di imparzialità e rispetto dei diritti della difesa. Naturalmente, non è una sorta di vaccino contro ogni virus, soprattutto quelli più resistenti a ogni profilassi, ma può agire da fattore di riduzione dei danni tipici delle relazioni sotterranee fra stampa e soggetti del processo”. 


Il capo della procura di Napoli, tuttavia, sottolinea come “la rinuncia a ogni ricerca di impropria promozione mediatica del lavoro del pubblico ministero sia quanto mai necessaria per evitare che si continui a scavare un fossato incolmabile fra magistratura requirente e giudici e fra la magistratura nel suo complesso e l’avvocatura, che hanno sempre più bisogno invece di una comune cultura delle garanzie”. 


D’altronde, Melillo diffida dell’idea che occorra affidare “sempre e solo al legislatore la speranza di costruire equilibri del sistema processuale più avanzati ed efficaci”. “In questo campo – aggiunge – i grandi rischi sono collegati alla capacità di governo delle tecnologie digitali impiegate nelle indagini e a quella dei magistrati di assicurare un rigoroso controllo delle sempre più gigantesche masse di dati personali che vi fanno ingresso quotidianamente”. Insomma, conclude il procuratore capo di Napoli, “nessuna riforma potrà in ogni caso sostituirsi alla responsabilità del magistrato, come a quella dell’avvocato, di fare uso quotidiano di una parola equilibrata, misurata, responsabile, ispirata al rispetto della funzione giudiziaria e dei diritti del cittadino”. 
Ermes Antonucci