No, il carcere non è un talk show

Sofia Ciuffoletti

La polemica sul diritto alla salute dei detenuti e la gestione del sistema penitenziario costretta a inseguire umori e dibattiti televisivi

La politica del diritto, in particolare la politica del diritto penale e penitenziario può essere dettata da umori, momenti storici, emergenze e contingenze. In Italia anche da trasmissioni televisive. 

 

E pensare che nella saga accidentata della gestione dell’emergenza Covid-19 in carcere, si era prodotto un effetto indiretto legato alla resa a effettività della tutela della salute in carcere. Vale la pena ricordare che, dal 2008, la salute è garantita, nelle patrie galere, dallo stesso servizio sanitario nazionale (o meglio regionale) nel rispetto del principio di equivalenza delle cure (prima così non era, la salute delle persone detenute era gestita dalla sanità penitenziaria alle dirette dipendenze del ministero della giustizia…). Questa “rivoluzione” è stata segno di civiltà giuridica e doveva contribuire a ricucire quello strappo nell’effettività del diritto alla salute, alla riservatezza, alla dignità tra società dei liberi e società dei reclusi.

 

D’altronde, già il legislatore fascista del codice penale Rocco aveva introdotto due norme, gli articoli 146 e 147 del codice penale, con cui si inserivano nell’ordinamento le misure del differimento obbligatorio e facoltativo della pena in caso di incompatibilità con il regime carcerario dovuta a condizioni di salute di eccezionale gravità. Insomma, le persone detenute restano persone, si ammalano, anche gravemente, eppure mantengono intatto il proprio diritto alla salute, a prescindere dal reato commesso. A maggior ragione in una situazione di emergenza sanitaria pandemica. Per questo, oggi, la magistratura di sorveglianza, usando uno strumento antico (e in assenza di misure specifiche ed effettive di deflazione carceraria), sta valutando tutte le situazioni di incompatibilità con il regime carcerario, anche per ragioni di salute, concedendo spesso, non il differimento della pena (una vera e propria sospensione delle istanze punitive dello stato con rimessa in stato di libertà), ma una misura più contenitiva che dal differimento pena trae origine, ossia la detenzione domiciliare in luogo di differimento, che coinvolge una sfera di bilanciamento con la dimensione della sicurezza. E questo anche nei casi di persone detenute per reati gravi di criminalità organizzata che d’altra parte sono spesso quei detenuti anziani, portatori di patologie gravi, spesso con esito infausto, che non possono accedere ad altri tipi di misure alternative (non a caso Vincenzo Sucato, in attesa di giudizio per reati di criminalità organizzata e ristretto in un circuito di “alta sicurezza”, è stato il primo detenuto morto a causa di Covid-19).

 

Tra l'altro è ancora pendente la procedura di esecuzione della sentenza della Corte EDU sul caso Provenzano. L’Italia era stata condannata per l’automatismo della procedura di proroga del regime del 41 bis, in particolare per la mancanza di una esplicita valutazione del deterioramento dello stato cognitivo di Provenzano (malato di varie patologie croniche, tra cui il morbo di Parkinson con grave deterioramento delle funzioni cognitive, negli ultimi anni allettato, idratato e alimentato totalmente mediante un sondino naso-gastrico). La Corte EDU, in particolare, chiede all’Italia di garantire che siano i giudici a decidere caso per caso, con riguardo al contemperamento delle esigenze di tutela della sicurezza pubblica e a quelle di salvaguardia dei diritti delle persone detenute. 

 

Per un circolo virtuoso le ordinanze di attento contemperamento delle esigenze di sicurezza con la valutazione della compatibilità delle condizioni cliniche con il carcere, in particolare al tempo del coronavirus, della magistratura di sorveglianza sono perfettamente in linea con quanto chiesto dalla Cedu al nostro paese.

Questo non poteva essere, forse, ed ecco che, dopo mediatiche spinte, è intervenuto il d.l. 28/2020 che (tra le altre e più varie materie) introduce “Disposizioni urgenti in materia di detenzione domiciliare e permessi”.

 

In breve si tratta di subordinare la concessione di alcune misure penitenziarie, per persone condannate per reati gravi o sottoposte a regime di 41 bis, al parere (obbligatorio, ma non vincolante) del procuratore generale presso la corte d’appello e del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. E questo per due misure come i permessi per gravi motivi familiari, GMF nel gergo penitenziario (concessi in caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente o di eventi familiari di particolare gravità, spesso concessi tramite scorta) e la detenzione domiciliare in luogo di differimento (in caso di donna incinta, madri con bambini piccoli e in caso di malattie gravi) che sono caratterizzate dalla necessaria tempestività di istruttoria e decisione.

 

Ora però, dato che è chiaro anche al Governo, evidentemente, che misure di questo genere o vengono prese in tempi rapidi o sono totalmente prive di effettività e siccome il lavoro delle procure (in tempi in cui il personale è già fortemente contingentato) verrebbe appesantito oltre misura dall’obbligo di elaborare il parere, il decreto prevede una “clausola di salvezza”, i GMF e le detenzioni domiciliari, infatti, possono essere comunque concesse dal magistrato di sorveglianza senza attendere i pareri, se ricorrono “esigenze di motivata eccezionale urgenza”, così come lo stesso magistrato può decidere comunque se i pareri non arrivano entro 24 ore dalla richiesta per i GMF ed entro 2 e 15 giorni (rispettivamente per il parere del procuratore generale presso al corte d’appello e per il procuratore nazionale antimafia) dalla richiesta per le detenzioni domiciliari. Dobbiamo davvero chiederci quali effetti si vogliono produrre con questo tipo di norma. Inattaccabile, forse, dato che esiste la clausola di salvezza di cui sopra e quindi in molti casi semplicemente inutile sul piano giuridico, ma altamente performativo in termini di creazione di una “cultura” comune intorno alla pena, alla detenzione e alla salute dei detenuti.

 

E, certo, stiamo parlando di salute di persone che è usuale considerare indifendibili. Ma difendere i diritti incomprimibili degli indifendibili (e non è facile) è il compito dello stato. Che lo stato si assuma questo compito, che lo rivendichi e che cominci a conoscere quella umanità reclusa da cui è più facile sentirsi antropologicamente distanti. D’altra parte il coraggio dell’azione politica (anche quella imposta dalla stessa Costituzione) “uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”... E forse queste misure, che per fortuna sul piano interpretativo non impediranno di rendere effettivi i diritti di dignità e salute delle persone recluse a qualsiasi titolo in carcere, sono figlie di un’umanità che non conosce e che ripudia il carcere, pur sostenendolo con tutte le sue forze. E invece, io credo, dobbiamo tornare a scoprire i tempi in cui chi scriveva il testo costituzionale, i padri e le madri costituenti, aveva al contempo conosciuto la galera e l’umanità reclusa. Come scriveva Elvio Fassone, “l’istanza rieducativa non è un portato di una scuola, ma il frutto di una nuova sensibilità politica. Molti dei Costituenti hanno sperimentato le galere fasciste, hanno inverato la loro funzione di intellettuali in una lunga prassi politica, e in un contatto reale con il tipo di umanità che vive nelle prigioni”.

Rimpiangere il passato è quasi sempre uno sport di corto respiro, a volte è invece segno di resistenza culturale. 

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