Un momento della protesta dei famigliari dei detenuti del carcere di Rebibbia (foto LaPresse)

A Palermo i penalisti avvisano: "Bisogna diminuire il numero dei detenuti"

Riccardo Lo Verso

La prima vittima del coronavirus in un carcere è un presunto capomafia, in attesa di giudizio, a Bologna. E in Sicilia si lancia l'allarme per chi è in regime di "alta sicurezza"

Il triste primato del “primo morto” per coronavirus in carcere spetta a un siciliano, Vincenzo Sucato. Aveva 76 anni ed era detenuto a Bologna. Lo scorso febbraio la Direzione distrettuale antimafia di Palermo aveva chiesto la sua condanna a 16 anni e 8 mesi di carcere. L'ipotesi era che avesse guidato la famiglia mafiosa di Misilmeri, paese della provincia palermitana. C'era anche il suo nome nel blitz dei carabinieri che nel dicembre 2018 azzerò il tentativo di Cosa Nostra di convocare la nuova cupola, quella del dopo Totò Riina.

 

 

C'è solo da sperare che il decesso di Sucato non riaccenda la protesta nelle carceri italiane registrata nelle scorse settimane. Modena, Foggia, Ferrara, Milano, Pavia, Voghera, Palermo: da nord a sud è montata la collera per la paura del virus e per le limitazioni nei colloqui con i parenti. I disordini si sono trasformati in guerriglia con morti, feriti ed evasi. Inevitabile che alcuni detenuti possano strumentalizzare le vicende del coronavirus, cavalcando l'emergenza sanitaria nella speranza di ottenere benefici. Non per questo si può e si deve liquidare il tema del diritto alla salute di tutti i cittadini, detenuti inclusi, condannati con sentenze definitive o in attesa di giudizio.

  

In attesa di giudizio era Sucato, detenuto a Bologna in “alta sicurezza”, e cioè il regime riservato a chi appartiene alla criminalità organizzata di tipo mafioso. È un gradino più in basso rispetto alle massime restrizioni del 41 bis, il carcere duro che tanto spaventa i boss e che tante critiche ha suscitato a livello europeo per la sua disumanità. Nei circuiti di "alta sicurezza" si trovano pure detenuti per reati di terrorismo e stupefacenti. Per tutti loro reparti separati, niente (o quasi) attività sociali sociali e culturali.

  

L'emergenza coronavirus ripropone con forza il tema del sovraffollamento delle carceri, che in una stagione di emergenza costituisce un elemento di forte rischio. Alcuni detenuti del Pagliarelli di Palermo, anche loro in "alta sicurezza", hanno avanzato un reclamo al direttore. Hanno paura e sentono il peso della lontananza dai familiari, acuita dalle restrizioni e solo mitigata dai video collegamenti. La Camera penale palermitana ha dato loro voce. Secondo i penalisti, non c'è tempo da perdere. Bisogna diminuire il numero dei detenuti. Come? Concedendo gli arresti domiciliari per residui di pena inferiori a 2 anni, sospendendo fino al 30 giugno i nuovi ordini di carcerazione per pene divenute definite fino a un tetto di quattro anni, riconoscendo in alcuna casi la liberazione anticipata e in altri licenze ai detenuti. Infine, per i detenuti in attesa di giudizio, che rappresentano oltre un terzo della popolazione carceraria, presunti innocenti (e non presunti colpevoli) bisogna riesaminare la necessità della carcerazione preventiva perché il carcere, dicono i penalisti, deve essere non la norma ma la “extrema ratio”.

 

Le misure prese finora dal governo sono bollate come inadeguate, tanto dagli avvocati quanto dall'associazione Antigone. Il presidente Patrizio Gonnella snocciola le cifre: “Bisogna mandare agli arresti domiciliari almeno altri 10.000 detenuti tra quelli che hanno un fine pena breve e coloro che soffrono di patologie o hanno età per cui un contagio potrebbe essere fatale". Il 67 per cento dei detenuti ha almeno una patologia sanitaria. Di questi l’11,5 per cento era affetto da malattie infettive e parassitarie, l’11,4 per cento da malattie del sistema cardio-circolatorio, il 5,4 per cento da malattie dell’apparato respiratorio. Inoltre il 62 per cento dei reclusi ha 40 anni o più e, al 31 dicembre 2019, ben 5.221 persone avevano più di 60 anni. "In questo momento di grande sforzo da parte del governo - dice Gonnella - il carcere rischia di essere un luogo a rischio anche per gli operatori. Oltre 120 poliziotti sono già risultati positivi, senza contare medici, infermieri penitenziari e ovviamente i detenuti. Il governo deve intervenire subito".

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