Maurizio Lupi (foto LaPresse)

Avvertite i forcaioli che l'inchiesta su Maurizio Lupi è stata archiviata

Ermes Antonucci

Prima la gogna che costrinse l'allora ministro delle Infrastrutture alle dimissioni, poi il silenzio mediatico

Roma. Nell’indifferenza quasi assoluta degli organi di informazione, è stata archiviata l’inchiesta che nel 2015 ebbe un grandissimo clamore mediatico e costrinse alle dimissioni l’allora ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi (che neanche fu mai indagato).

Si tratta di un filone della maxi inchiesta “Grandi opere”, avviata dalla procura di Firenze e deflagrata l’11 marzo 2015 con l’arresto di quattro persone, tra cui l’ex super dirigente del ministero dei Lavori pubblici Ercole Incalza (il padre dell’alta velocità in Italia) e l’imprenditore Stefano Perotti, e con oltre 50 indagati. L’elenco delle accuse era chilometrico: corruzione, induzione indebita, turbativa d’asta, altri svariati delitti contro la Pubblica amministrazione e associazione a delinquere. Secondo i pm fiorentini una “cupola” pilotava i grandi appalti pubblici in tutta Italia, come quelli legati all’alta velocità, a Expo e alle autostrade.

 

L’allora ministro Lupi non venne mai formalmente indagato ma finì coinvolto nel tritacarne mediatico-giudiziario in virtù di alcune intercettazioni, del tutto irrilevanti penalmente, riportate dai giornali. L’accusa mossa dal tribunale mediatico nei suoi confronti era di avere mantenuto un legame troppo stretto con Incalza (che all’epoca, però, rappresentava uno dei massimi vertici del ministero guidato da Lupi) e di avere ricevuto alcuni favori, come un abito sartoriale, un lavoro e un Rolex da 10 mila euro per il figlio Luca. In realtà, a quel tempo il figlio di Lupi aveva già accettato un lavoro negli Stati Uniti e il tanto discusso Rolex era un regalo per la laurea appena ottenuta.

 

Nonostante la scarsa credibilità dei fatti, i principali organi di informazione scatenarono la gogna contro Lupi, chiedendone le dimissioni. Nessuno si tirò fuori dal tiro al bersaglio. Il Fatto quotidiano definì in prima pagina gli indagati “la banda dei soliti noti”, concentrando la mira su Incalza, ma invocando comunque il passo indietro del ministro: “Lupi non sarà indagato nell’indagine ma a prescindere dal Rolex, dagli abiti e dal lavoro al figlio appare come il responsabile politico e morale di questa vicenda”. Su Repubblica, in un lunghissimo editoriale, Francesco Merlo si scagliava contro la “spregiudicatezza del militante di Comunione e Liberazione”, sentenziando: “Prima che da ministro devi dimetterti da padre”. “Corrotti, corruttori, figli e cognati: il selfie del nostro paese”, scriveva Massimo Gramellini sulla Stampa, mentre sul Corriere della Sera Sergio Rizzo sfruttava l’occasione per allarmare i lettori sull’esistenza di una “ragnatela di mandarini” e di “superburocrati più potenti dei politici”. Alla fine Lupi fu costretto a dimettersi.

 

Dimenticate le certezze del tripudio forcaiolo, a livello giudiziario le cose sono andate molto diversamente. Nel 2016 gli stessi pm fiorentini hanno archiviato l’accusa di associazione a delinquere. Un anno dopo, gli indagati hanno ottenuto un’altra archiviazione in uno dei filoni dell’inchiesta finiti per competenza a Roma. Per Incalza, che a causa dell’indagine trascorse 19 giorni in carcere e 71 ai domiciliari, si è trattato del sedicesimo proscioglimento in sedici casi. Pochi giorni fa, dopo quattro anni, i pm di Milano hanno chiesto e ottenuto l’archiviazione di un altro stralcio dell’indagine avviata a Firenze: si tratta proprio del filone in cui era finito coinvolto indirettamente Lupi. “Ero certo, come lo sono adesso, della correttezza del lavoro dei miei collaboratori al ministero e non ho mai contestato la legittimità delle indagini ma sempre il processo mediatico che ne è seguito e la sua strumentalizzazione politica”, ha affermato Lupi dopo la notizia dell’archiviazione. “Non rimpiango di essermi dimesso – ha aggiunto – perché con quel gesto volevo testimoniare la mia concezione di politica e di governo. Mi domando solo: chi ripagherà dei giorni terribili passati dalle persone coinvolte, le carriere rovinate, la sofferenza dei familiari?”.

 

Ciò che è certo è che Lupi non sarà ripagato in immagine, visto che la notizia dell’archiviazione dell’indagine, a dispetto del clamore e delle prime pagine ricevute quattro anni fa, ha ricevuto scarsissimo spazio sui quotidiani. Il Fatto quotidiano ha deciso proprio di ignorarla. Forse anche perché a coordinare le indagini che si stanno rivelando sempre di più un flop fu il procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo, colui che ora Travaglio vorrebbe alla guida della procura di Roma per garantire “discontinuità” rispetto a Giuseppe Pignatone.