L'entusiasmo per il nuovo codice antimafia è fin troppo esagerato

Michele Vietti*

Fatto salvo l’impegno del ministro, si dovrebbe rivedere l’impostazione del progetto (per ora generico)

Leonardo Sciascia, che di lotta alla criminalità organizzata ne sapeva qualcosa, usava ripetere che “Tutti i nodi vengono al pettine, quando c’è il pettine”. Le mafie sono un fenomeno complesso, trasversale. Accorpano devianza criminale, ma anche senso di comunanza col sodalizio, con punte di orgogliosa appartenenza a una terra, a una provenienza comune. Per questo sono durature nel tempo e non sono state sradicate nonostante più di un secolo e mezzo di lotta da parte delle istituzioni. Le mafie si annodano al tessuto amministrativo dello stato, si infiltrano nel ceto produttivo del paese, inquinano i flussi di trasferimento della ricchezza. Lo stato è il pettine cui spetta intercettare i nodi e possibilmente eliminarli. Non è semplice. Esiste una criminalità territoriale, facile da individuare, ma difficile da combattere.

 

Di questi giorni le notizie del danneggiamento del busto di Falcone e dell’intimidazione all’omonimo istituto al quartiere Zen di Palermo. Segnali inquietanti di come la cultura mafiosa continui a proporsi come alternativa a quella legale. Ma esiste una criminalità mafiosa ancora più insidiosa, che negli ultimi anni si è definitivamente imposta come quella vincente: è la criminalità finanziaria.

 

Le mafie sono oggi delle vere e proprie imprese; i profitti derivanti dall’illegalità nei territori di origine sono stati reinvestiti in nuovi territori della penisola e in forme apparentemente legali.

 

 

 

Michele Di Lecce, ex procuratore di Genova, spiegava qualche giorno fa sulla Stampa che anche la Liguria, che nell’immaginario dei propri abitanti è regione affrancata dalla mafia, in realtà è da decenni pesantemente infiltrata negli appalti pubblici e privati e nel tessuto delle imprese più in generale. Milioni di euro che le mafie reinvestono nella finanza, dove il denaro genera denaro e più difficile è provarne la provenienza illecita. Il pettine dello stato in questo settore è stato sempre a maglie troppo larghe, sicché i nodi sono spesso passati indenni al setaccio. Ne è prova il sistema di gestione dei beni confiscati, storicamente affidato a una legislazione speciale il cui intendimento era quello di salvaguardare l’avviamento delle aziende cambiando ovviamente i beneficiari dei relativi profitti: dalle mafie allo stato. Sappiamo cosa è successo. Da un lato le norme sono apparse troppo dettagliate, sicché è stato sempre possibile per il mafioso di turno un ricorso che bloccasse il procedimento di espropriazione; dall’altro le conseguenti lungaggini facevano venire meno l’appetibilità economica del bene, l’avviamento svaniva e nessun imprenditore onesto risultava conseguentemente interessato al subentro nella gestione.

 

“Lo sguardo del legislatore si è come distratto, estendendo
le norme contro le mafie anche ai reati contro
la pubblica amministrazione”.
La necessità di agire sulla specializzazione delle procure, visto che “la peggiore risposta
per contrastare
le organizzazioni mafiose
è la proliferazione
dei presidi dello stato sul territorio”

Sovente i beni sequestrati alla mafia risultavano quindi in stato di abbandono o comunque privi di quella necessaria attenzione nella gestione che solo un imprenditore può riservare all’azienda.

Qualche volta, complice la territorialità della mafia e la conseguente intimidazione anche implicita, finivano per essere ricomprati da prestanome del mafioso cui erano stati sequestrati.

 

Figurarsi poi la difficoltà dell’intercettazione di un flusso finanziario, di per sé già difficile da individuare nel suo assetto proprietario effettivo, ma ancor più da bloccare, in considerazione della estrema facilità nello spostamento del denaro investito sui mercati regolamentati. Il progetto di legge governativo che intende rivedere le norme sul codice antimafia ha correttamente individuato la necessità di aggiornamento alle mutate dinamiche dell’imprenditorialità mafiosa. Intervenire sulle norme che regolano i sequestri, la confisca e la gestione dei beni mafiosi è sicuramente necessario.

 

Tuttavia, passando al merito del provvedimento credo che l’entusiasmo con cui è stata salutata l’approvazione del testo da parte del Senato vada un poco smorzato. Innanzitutto il testo torna alla Camera in terza lettura, con tempi di approvazione tutt’altro che certi se si tiene conto della pausa estiva, dell’affollamento di leggi in attesa, dell’incertezza del calendario parlamentare: per poco il testo non sarebbe stato votato nemmeno dalla Camera, perché incombeva il ben più rilevante distaccamento del comune di Sappada… Ma è nella qualità della tecnica normativa che si annidano le più forti perplessità.

Sono d’accordo con Luciano Violante che, commentando a caldo le modifiche introdotte dalla Camera, ha parlato di norme mal scritte e di una pericolosa genericità. Penso che chi ha scritto il testo abbia ritenuto che per risolvere la cavillosità della normativa in vigore fosse sufficiente allentare la specificità delle norme.

È una tendenza comune alla legislazione penalistica degli ultimi anni. Basta ricordare la riforma del falso in bilancio dove, nel dichiarato intento di reintrodurre un reato in realtà mai depenalizzato, si è tornati alla formulazione precedente alla Riforma del diritto societario, la cui vaghezza tutti criticavano per le conseguenze sulla certezza del diritto e sulla connessa rischiosità delle scelte manageriali.

 

 

Le misure necessarie

Allo stesso modo mi sembra che questo nuovo codice antimafia sia pervaso da una genericità nell’identificazione dei poteri assegnati agli organi delle procedure e nell’individuazione dei meccanismi operativi della confisca e della conseguente gestione del bene sequestrato. L’impressione è che il pettine, ben lungi dall’essersi infittito, si sia pericolosamente allargato. E ciò ovviamente fatte salve le buone intenzioni del Guardasigilli che, anche su questo fronte, ha mostrato una apprezzabile volontà riformatrice.

 

Per evitare i problemi indotti dalle norme finora vigenti sarebbe stato sufficiente agire sulla specializzazione delle procure e dei tribunali competenti a decidere in materia. Si sarebbe ottenuto, senza modificare la normativa di settore, un sicuro aumento della competenza di coloro che di questo si occupano, in termini di prevedibilità e di efficacia delle relative decisioni.

 

Chi come me si è lungamente occupato di organizzazione giudiziaria ha maturato la convinzione che la soluzione della lentezza della macchina della giustizia non stia solo nella enorme quantità di norme applicabili, ma anche nella pletorica distribuzione delle relative competenze sul territorio.

 

 

Potrebbe sembrare paradossale, ma la peggiore risposta possibile per contrastare le organizzazioni mafiose è proprio la proliferazione dei presidi dello stato sul territorio. L’effetto di una simile politica, da sempre attuata se si pensa che moltissimi uffici giudiziari del sud Italia sono stati sottratti alla recente revisione delle circoscrizioni giudiziarie proprio con la giustificazione che si trovavano in territori ad alta densità mafiosa, è l’incertezza nell’interpretazione e perciò nell’attuazione delle norme di contrasto alla criminalità. Incertezza nei tempi di risposta ma anche nella qualità della risposta.

 

E questo non vale solo per le procure della repubblica (la Sicilia è l’unica regione italiana ad avere ben 4 corti di appello con relative Procure generali), ma anche per le forze dell’ordine. Lo aveva compreso il generale Carlo Alberto dalla Chiesa che 35 anni fa, poco prima di morire, lamentava di non poter disporre di alcun potere effettivo per coordinare il territorio, paragonando i suoi poteri prefettizi a Palermo a quelli del suo omologo di Forlì. Forse sarebbe il caso di cambiare l’impostazione del progetto di riforma. Così com’è non mi sembra foriero di reali benefici per il contrasto alla moderna criminalità organizzata; senza coordinamento con le altre istituzioni, anche la nuova Agenzia nazionale ben poco potrà fare per contrastare gli attuali strumenti di reale accumulo della ricchezza mafiosa che non sono più nemmeno imprenditoriali, ma essenzialmente finanziari. E’ necessario focalizzare bene il problema, prima di intervenire. Mi pare, invece, che nel nuovo codice antimafia lo sguardo del legislatore si sia come distratto, estendendo le norme contro le mafie anche ai reati contro la pubblica amministrazione.

 

Al di là dell’azzardo giuridico di paragonare un corrotto a un mafioso tanto da applicargli le stesse misure di prevenzione, l’effetto finale rischia di generare una pericolosa confusione. E la soluzione immaginata dal Senato mi sembra ancora meno convincente: le misure scatterebbero solo se si possa contestare l’associazione per delinquere. Come dire: da oggi ci si può far corrompere da soli o al massimo in due, ma non in tre o più. Il pettine si è inceppato su un cavillo; i nodi possono stare tranquilli.

 

*avvocato, ex vicepresidente del Csm, autore di “Mettiamo giudizio. Il giudice tra potere e servizio” (Università Bocconi Editore)