Uno scandalo italiano
Storia di una persecuzione. La giustizia dei professionisti dell’antimafia ha inflitto a Bruno Contrada un supplizio durato venticinque anni. Ora si scopre che quel processo non si doveva nemmeno fare
Su Bruno Contrada la giustizia italiana ha preso una cantonata che più cantonata non si può. Pubblici ministeri e giudici hanno accusato, processato e condannato un imputato che non potevano accusare, processare e condannare. Uno scandalo, giudiziario e umano, senza se e senza ma. Lo stabilisce la Cassazione che ha revocato la condanna a 10 anni interamente scontata, accogliendo, una volta per tutte, le indicazioni della Corte europea per i diritti dell’uomo. Perché nella storia del poliziotto Bruno Contrada sono i diritti ad essere stati violati.
C’è voluto il richiamo della giustizia di Strasburgo per ricordare l’esistenza di un principio basilare: un uomo non può essere processato per un reato che non esiste. Nessuno se n’è accorto in oltre un decennio di indagini e processi, celebrati in lunghissimi gradi di giudizio. Fra il 1979 e il 1988, anni in cui, secondo la pubblica accusa, l’ex numero 3 del Sisde aveva contribuito ad agevolare il potere di Cosa nostra, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa “non era sufficientemente chiaro”.
Il richiamo della giustizia di Strasburgo per ricordare
che un uomo non può essere processato
per un reato
che non esiste
Chiaro, e mica tanto, lo sarebbe diventato anni dopo. Nel 2015 la prima crepa nel percorso processuale su cui era stato apposto il bollo della definitività. I giudici di Strasburgo diedero ragione a Contrada. I tribunali nazionali non avevano rispettato i principi di “non retroattività e di prevedibilità della legge penale”. Ci sono voluti altri due anni per arrivare alla revoca decisa ieri, dopo che l’incidente di esecuzione era stato rigettato dalla Corte d’appello e che erano state respinte diverse istanze di revisione del processo. La decisione della Cassazione è senza rinvio. La revoca è davvero definitiva.
Una sberla per la giustizia italiana e per quei pubblici ministeri della procura di Palermo, allora diretta da Giancarlo Caselli, che riconobbero in Contrada il poliziotto infame che andava a braccetto con i boss. A cominciare da Antonio Ingroia, che di Caselli era il prediletto, pubblico ministero assieme ad Alfredo Morvillo del primo processo concluso con la condanna. Non serve essere dei geni della matematica: la media dei successi di Ingroia crolla del 50 per cento. Le statistiche dicono che nel corso di una quasi decennale stagione giudiziaria, prima di darsi alla politica e al sottogoverno regionale chiamato da Rosario Crocetta, il pm Ingroia ha fatto due soli grandi processi: quello a Bruno Contrada e quello a Marcello Dell’Utri.
Quando nel 2015 i giudici di Strasburgo condannarono l’Italia a risarcire l’ex poliziotto con diecimila euro, l’allora procuratore aggiunto disse che la decisione nasceva da “un fraintendimento, una solenne cantonata”. Di solenne c’è solo la bocciatura di un processo che non si doveva neppure celebrare.
La decisione
della Cassazione
è senza rinvio.
La revoca
della condanna
a 10 anni,
interamente scontata,
è davvero definitiva
Non ci voleva la sfera di cristallo per prevedere le reazioni dei militanti dell’antimafia, dei nostalgici di una stagione inquisitoria che a Palermo ha collezionato sonore bocciature, dei commentatori duri e puri. Mica Contrada è stato assolto, diranno in coro, e i fatti contestati nei processi restano. Il primo a battere un colpo è stato Antonino Di Matteo, ex sostituto procuratore a Palermo, oggi alla Direzione nazionale antimafia, che con Ingroia ha dato vita al processo sulla Trattativa stato-mafia, prima che l’ex procuratore aggiunto svestisse la toga: “I fatti rimangono fatti, i rapporti di grave collusione con la mafia rimangono accertati nella loro esistenza e gravità – dice, appunto, Di Matteo – Già questo rende merito al lavoro della procura di Palermo e dei giudici che li hanno accertati. Spero – aggiunge – che questo venga spiegato per arginare le strumentalizzazioni finalizzate a rappresentare falsamente l’insussistenza dei fatti contestati”. Accontentato. Nessun cenno da parte del sostituto procuratore nazionale antimafia alla distrazione di massa di una giustizia quanto meno sonnolenta. Di Contrada si sono occupati una quarantina di magistrati fra pubblici ministeri, giudici per le indagini preliminari, del Riesame, di Corte d’appello e della Cassazione. Roba da pallottoliere. Hanno sbagliato tutti? come si chiedevano provocatoriamente autorevoli commentatori. La risposta è sì.
In fin dei conti Di Matteo ha ragione. È vero, i giudici europei non parlano dei fatti del processo. Dicono molto di più, e cioè che sono stati celebrarti dibattimenti senza reato. Non è solo una questione, già di per sé grave, in punta di diritto. Da Strasburgo è arrivata una lezione culturale: ci deve essere un bilanciamento fra l’esigenza di combattere la criminalità e le garanzie del singolo cittadino. L’imputato deve conoscere anticipatamente la norma per la quale è finito sotto processo. Deve sapere e non prevedere quali saranno le possibili conseguenze. Ne vale del suo diritto di difesa costituzionalmente garantito. Lo scandalo del processo Contrada è figlio di una totale assenza di equilibrio. Un uomo è stato arrestato e condannato per qualcosa che all’epoca dei fatti addebitatigli non era reato. Non un uomo qualsiasi ma l’ex numero 3 del Sisde, capo della Squadra mobile di Palermo e della Criminalpol.
Lo ammanettarono alla vigilia di Natale del 1992, pochi mesi dopo che le bombe massacravano i corpi di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e degli uomini di scorta nelle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Lo ammanettarono
alla vigilia di Natale
del 1992. Altro
che super poliziotto, Contrada era amico
dei boss, dicevano
i pentiti
Altro che super poliziotto, Contrada, così dicevano i pentiti, era amico dei boss. Passava loro soffiate su indagini e blitz, li aiutava a scappare, incontrava capimafia del calibro di Saro Riccobono e del principe di Villagrazia, Stefano Bontade. E cioè dei padrini palermitani che decidevano sulla vita e la morte delle persone. La mattanza dei corleonesi era ancora lontana.
Da quel 1992 Contrada ha subito la gogna di una giustizia che sa essere punitiva e vendicativa ancora prima di una dichiarazione di colpevolezza. I tempi della carcerazione preventiva e del processo da lui subiti sono tipici di un sistema malato. Nel 1996 il Tribunale di Palermo lo condannò a 10 anni, strappandogli i gradi dal petto e l’onore. Nel 2001 la Corte d’appello ribaltò la sentenza: assolto per “la carenza dei fatti concreti” e la mancanza della “necessaria specificità” delle accuse di pentiti che in quegli anni godevano di un titolo di credito illimitato o quasi. Piuttosto, scrivevano i giudici d’appello, si era in presenza di “apprezzamenti o opinioni” dei testimoni. I quali, per altro, non si poteva escludere che fossero mossi da una “sindrome vendicatoria” nei confronti dello sbirro che li aveva indagati. I giudici d’appello concedevano a Contrada, se non altro, il beneficio del dubbio, in una stagione senza regole, scritte e certe, se non quelle della strada. Per stanare i mafiosi il poliziotti si dovevano sporcare le mani, agganciare fonti, persino ammiccare se fosse stato necessario.
Non era così per la procura di Palermo e per i successivi giudici che condannarono l’imputato. Il comportamento di Contrada non rientrava nella prassi sbirresca, ma era il segno dell’infame collusione, di quel concorso esterno di cui si sarebbe iniziato a parlare solo due anni dopo, nel 1994. Un reato che, a distanza di decenni, ancora non esiste nel codice penale. Nell’attesa infinita e disattesa che sia normato, il reato è servito, in molti casi, per processare le ombre e fare di un sospetto una prova. Il delitto imperfetto che diventa perfetto.
E pensare che già trent’anni fa Giovanni Falcone sottolineava la necessità di una “tipizzazione” per colpire la cosiddetta borghesia mafiosa, i colletti bianchi in combutta con i boss. Il codice prevede l’art. 416 bis (associazione mafiosa), e l’art. 110 (concorso nel reato). Alla fine degli anni Ottanta arrivò il cosiddetto “combinato disposto” in nome del quale sono fioccate le sentenze che hanno cristallizzato il reato nella giurisprudenza nonostante sia mancato il passaggio legislativo per inserire il reato nel codice penale. Le occasioni non sono mancate. E neppure i processi. Giulio Andreotti, Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri – solo per fare tre esempi con esiti diversi – sono stati processati per concorso esterno in associazione mafiosa. Studiosi e politici di tutto l’arco parlamentare hanno detto la loro sull’argomento. Nulla è cambiato.
Per Bruno Contrada è diverso. Lo hanno condannato ancora prima che iniziasse lo scontro fra garantisti e forcaioli, ancora prima che il concorso esterno venisse menzionato in una sentenza della Cassazione. Nel suo caso è stato applicato un reato che non esisteva e pure in maniera retroattiva senza che nessuno dicesse qualcosa. È stata la Corte europea a suonare la sveglia.
“Da oggi Bruno Contrada è un uomo incensurato”, dice il suo avvocato, Stefano Giordano, figlio di Alfonso, il presidente del maxiprocesso alle cosche di Palermo. Il legale riconosce il merito alla Corte di cassazione, “in maniera coraggiosa e libera”, di avere eliminato ogni macchia nei confronti di “un grande servitore dello stato”. Da oggi comincia una legittima battaglia per trovare, qualora sia possibile, un ristoro a dieci anni di carcere. Si parte dal grottesco risarcimento di 10 mila euro che due anni fa i giudici di Strasburgo riconobbero a Contrada per il danno morale subito.
Condannato ancora prima che iniziasse
lo scontro fra garantisti e forcaioli. Da neo incensurato, adesso proverà a riprendersi
la vita
Quanto valgono dieci anni di galera, la dignità e i diritti di un uomo? Un uomo che, nel caso di Contrada, ha criticato le sentenze, ma le ha sempre rispettate. Quando uscì dal carcere, nel 2012, invecchiato e fiaccato da una malattia, disse di non “provare rancore per nessuno”. Ricordava i tanti uomini di stato che gli erano stati vicini”. “Verrà un giorno – diceva – che forse io non vedrò, che vedranno i miei figli, o i miei nipoti che la verità sarà acclarata e ristabilita. Temo allora che qualcuno debba ravvedersi e pentirsi di quello che ha fatto contro di me e le istituzioni che ho fedelmente servito”. Quel giorno, a 84 anni suonati, è arrivato anche se adesso ci sarà la corsa a negarlo.
Quelli a venire, c’è da giurarci, saranno giorni di scontro duro fra i garantisti e i forcaioli di cui sopra. Si potevano contestare altri reati, diranno i colpevolisti a oltranza. Un’interpretazione che non cancellerebbe l’errore. Si corre il rischio di andare fuori fuoco, dimenticando che il processo a Bruno Contrada non andava celebrato. A meno che qualcuno fra i giudici non ammetta di avere sbagliato e allora la vicenda potrebbe davvero aprire un dibattito costruttivo. Nel frattempo, per prima cosa, il poliziotto ammanettato nel ‘92 proverà da neo incensurato a riprendersi la sua vita, iniziando dalla pensione che non ha mai percepito.