L'estate di Vincenzo Nibali

Il 27 luglio 2014 lo Squalo saliva sul gradino più alto del Tour de France dopo sedici anni dalla vittoria di Marco Pantani

Giovanni Battistuzzi

L'estate francese a Parigi è meno brillante che altrove. Se ne lamentava già negli anni Sessanta Louis-Ferdinand Céline, guardando sopra i tetti della capitale, "il cielo gravido di umidità che incombe come un malpensiero" e nemmeno "i colori ruvidi delle campagne a illudere i parigini che l'estate sia una stagione meravigliosa".

 

L'estate francese a Parigi era così anche il 27 luglio 2014. Eppure, almeno noi italiani, non ce ne accorgemmo. Non facemmo caso al cielo macchiato di nubi e fosco d'afa. E neppure al sole rarefatto che provava, invano, a dar luce piena alla scena. Altro ci interessava. E quell'altro erano quelle bandiere tricolori che si muovevano nell'aria per un ragazzo che le guardava timidamente dall'alto di un podio messo a favor di sfondo in mezzo agli Champs-Élysées. 

 

Erano le 19,10 quando Vincenzo Nibali si mise di spalle all'Arco di Trionfo e iniziò a cercare davanti a sé qualcosa da fissare, non riuscendosi. I suoi occhi vagavano a destra e a sinistra in quel formicolare giallo, macchiato qua e là di verde, bianco e rosso. Le sue orecchie iniziavano a sentire le prime note dell'inno di Mameli placare il vociare solito del post corsa. Il Tour de France era finito e lui l'aveva vinto. La maglia gialla era davvero sua e nessuno gliel'avrebbe tolta. Erano passati sedici anni dal successo parigino di Marco Pantani. Era il settimo italiano a riuscirci dopo Ottavio Bottecchia, Gino Bartali, Fausto Coppi, Gastone Nencini, Felice Gimondi e il Pirata. Il sesto ciclista della storia a conquistare almeno un'edizione di tutti i tre grandi Giri (Giro-Tour-Vuelta) dopo Jacques Anquetil, Felice Gimondi, Eddy Merckx, Bernard Hinault e Alberto Contador (nel 2018 si aggiunse a loro anche Chris Froome).

 

Non era ancora sceso dal podio che già qualcuno aveva malignato, parlando di vittoria giusta ma fortunata dato che i grandi rivali della vigilia, Chris Froome e Alberto Contador, avevano assaggiato l'asfalto e si erano dovuti ritirare. Lui glissò, Eddy Merckx e Felice Gimondi no, ripetendo la più antica legge del ciclismo: "Chi resta in piedi ha sempre ragione". Anche perché indipendentemente dalle sfortune altrui, quel Tour de France Nibali lo vinse per intuizioni proprie, lì dove a pochi sarebbe venuto in mente neppure di provarci.

 

Come tra i panettoni dello Yorkshire verso Sheffield. E fu potenza e convinzione. Perché per scattare a poco meno di duemila metri dall'arrivo di una tappa mossa e rognosa, e sei nel gruppo buono, devi avere gamba e volontà. Quella di mettere in chiaro fin dal principio che chiunque voglia vincere dovrà in qualche modo fare i conti con te.

 

 

Come tra le pietre del nord della Francia, quelle che tutto l'anno sono di tutti, ma in primavera solo della Roubaix. E fu equilibrismo e pelo sullo stomaco. Perché solitamente in mezzo a fango e acqua, con oltre due settimane da correre, è lo spirito di sopravvivenza e l'istinto di conservazione a prevalere. Non quel giorno però, almeno per lo Squalo. Nibali piazzò i gregari in testa al gruppo a fare ritmo, il più alto possibile e così facendo innescò gli eventi. Froome nella tempesta iniziò ad agitarsi, perse le posizioni migliori e nel cercare di risalire il gruppo finì per terra. Alberto Contador iniziò a tirare i freni e rimase indietro. E davanti c'era sempre lui, lo Squalo, a galleggiare su acqua, terra e pietre. Dietro a Lars Boom, vincitore ad Arenberg quel giorno, ma davanti, e di minuti, a tutti gli altri.

  

 

Come salendo sui Vosgi, sulle Alpi, sui Pirenei. E fu agilità e predominio. Perché le montagne sono una necessaria sberla che i ciclisti devono ricevere. Qualcuno però riesce a trasformarla in una carezza.

 

Nibali riuscì a farlo per la prima volta in cima alla Planche des Belles Filles, scattando a due chilometri e mezzo dallo striscione d'arrivo dopo aver ringraziato Michele Scarponi per l'aiuto e recuperando, uno a uno, chi era rimasto in avanscoperta dal mattino, rivestendo il giallo che aveva dato in prestito a Tony Gallopin.

 

 

Poi si ripetè a Chamrousse e a Hautacam, perché ogni catena montuosa deve essere domata per giustificare appieno una vittoria.

 

 

 

Sei anni fa alle 19,10 a Parigi terminava il Tour de France di Nibali e iniziò, anzi riniziò, l'estate nella quale l'Italia si riscoprì in bicicletta.

 

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