Pantani, 20 anni dopo

Pantani e quell'applauso lungo un Tour de France

Giovanni Battistuzzi

Vent'anni fa Marco Pantani vinceva il Tour de France. L'ultima tappa della Grande Boucle 1998 e il tributo di Parigi al Pirata mentre entrava nella storia del ciclismo

A Parigi, in quel giorno di agosto di vent'anni fa, sui Campi Elisi, le persone si contavano a centinaia di migliaia. E avevano facce curiose, voci squillanti, una parola da scandire, da urlare, da acclamare. Una parola su tutte, un suono francese che francese non era: "Pantanì". Perché quel cognome italiano era diventato in poco più di un mese internazionale, amato ovunque, anche in Francia. Applaudito a tal punto da aver conquistato un accento sull'ultima vocale. Perché dietro quel cognome italiano c'era un amore che era nato nonostante tutto, nonostante la Festina e il suo scandalo, nonostante i sospetti e i suoi clamori, nonostante quell'altra parola, che però era nera e spaventosa, che tutti nominavano senza nessuna voglia di nominarla: doping. Perché dietro quel cognome italiano c'era un ragazzo che aveva appena fatto qualcosa che non si vedeva da anni: era riuscito a infiammare un paese, l'Italia, era riuscito a esaltarne un altro, la Francia, era riuscito a salvare una corsa, il Tour de France. E tutto questo correndo come si correva un tempo, con l'animo indomito d'arrembaggi, con le gambe cariche di rivolte montane, con la testa leggera di chi sa che non ha alternative a quella di scattare, a rendere impossibile a chiunque l'ascesa, a trasforma qualsiasi ascesa in un campo di battaglia. L'aveva vinto dopo aver sconfitto tutti al Giro d'Italia un mese prima, stritolando le resistenze altrui, involandosi per monti, planando verso valli, duellando con Tonkov in un testa a testa che sembrava uno duello letterario.

 

Marco Pantani e i suoi compagni entrarono in testa nel circuito finale, passarono per primi accanto all'Arco di Trionfo, si scaldarono di urrà, allez, applausi per quel romagnolo che per loro valeva quanto un francese, perché il volo verso Plateau de Beille, quello verso Les Deux Alpes aveva il lessico internazionale della magnificenza, quello che superava i confini delle Alpi e univa sotto un'unica bandiera con l'orecchino e la bandana chi sapeva ancora amare la bicicletta e quegli scriccioli a pedali che su di essa sapevano ancora entusiasmare.

 

"Pantanì, Pantanì, Pantanì" si sentiva per le vie di Parigi quel giorno. "Pantanì, Pantanì, Pantanì" fu un silenzio quando la ruota di Marco si sgonfiò e lui dovette scendere di bicicletta per rimontarla, come se la sfortuna di sempre gli avesse ricordato di non essersi dimenticata di lui, che gli aveva solo concesso una pausa. "Pantanì, Pantanì, Pantanì" e fu un boato quando l'ultimo giro finì e con lui il Tour de France e con questo quella storia incredibile, la stessa scritta da Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault, Steven Roche e Miguel Indurain, la stessa rimasta intatta da allora, da quel 2 agosto 1998, il giorno nel quale Marco Pantani fu vestito di giallo davanti all'Arc du Triomphe, il Marc du Triomph, almeno per la Gazzetta dello Sport.

 

"Pantanì, Pantanì, Pantanì" era il sottofondo dell'ultimo sprint di Tom Steels, il quarto davanti a tutti, il quarto da ruota più veloce della Grande Boucle.

 

 

"Quando Marco Pantani salì sul podio, si posizionò sul gradino più alto, quel "Pantanì, Pantanì, Pantanì" si tramutò in un applauso lungo un Tour.

 

 

Marco Pantani in maglia gialla trentatré anni dopo Felice Gimondi, con Felice Gimondi accanto che gli alza il braccio che gli dice che tutto è vero. Perché tutto era vero quel giorno: quel Tour de France era suo, il suo nome da quel momento era un monumento che luccicava nella storia del ciclismo.

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