Pantani, 20 anni dopo

Il Titano Noé e il primo arrembaggio di Pantani

Giovanni Battistuzzi

Era il Giro del 1998. A San Marino l'arrivo della fuga premiava un grande gregario. Il Pirata rosicchiava tre secondi a Zülle: "Poco ma tutto quello che si poteva fare", dirà Marco

Quello che poteva fare l'aveva fatto. Quando Marco Pantani si guardò indietro vide una breve assenza alle sue spalle. Non era il vuoto che aveva sperato, ma tant'è, quello c'era e quello prendeva. Qualche secondo, non di più, ma di quelli che fanno venire un mezzo sorriso. Perché la salita era quella che era, dura, ma non abbastanza, neppure troppo lunga. Sotto le ruote c'era l'asfalto che portava su al Monte Titano, che poi altro non è che San Marino, due passi dalla sua Cesenatico. C'erano i suoi tifosi lungo la striscia d'asfalto, colorati di giallo, mentre il rosso del Sangiovese scorreva nei bicchieri. "Un bel casino per Marco", gridava un uomo con la bandana in testa. E tutti a urlare, battere piedi e mani, suonare le trombette da stadio. Lo applaudirono al passaggio. Fu un attimo. Perché il Pirata stava arrembando. Uno scatto, poi un'altro e quel Alex Zülle che non si staccava di ruota. Ancora uno, ancora un'altro, il traguardo che si avvicina, il francese Roux che allunga e che, non inseguito, se ne va davvero. Al chilometro dall'arrivo tutti ancora assieme, Pantani si guarda dietro, pensa che dare un'altra botta può non essere sbagliato. La dà, e la maglia rosa questa volta fa una smorfia, perde due metri, non li recupererà più. Saranno tre secondi sotto lo striscione, meglio che niente. Anche perché ce ne sono cinque d'abbuono da sommare. 

 

"Ho guadagnato poco ma è tutto quello che si poteva fare. Nemmeno quando la rampa è impegnativa si riesce a fare il vuoto" e parlava di Zülle. "Sono l'unico a dare battaglia, ma nemmeno questa era una salita per me: serviva soprattutto potenza" e parlava degli altri. "Non possiamo portare Zülle in carrozza fino a Milano" e sottolineava il concetto. "Mi spiace soprattutto per i tifosi. Sarebbe stato bello vincere qui, a un passo da casa mia. Ma è andata così. C'era via una fuga e alla fine è rimasto davanti il più forte di quegli attaccanti". E parlava di sé, ma soprattutto di Andrea Noè, l'ultimo ad arrendersi degli avanguardisti, l'unico a resistere al ritorno del gruppo, il solo ad arrivare a braccia alzate all'arrivo. Festeggia Andrea Noè e ne ha ben donde. Perché mai l'aveva fatto sino ad allora. Perché si era sempre speso per altri e sempre fino in fondo. "Perché questo è il mio mestiere", diceva "faticare per i capitani". Ma quel giorno anche nel volto di Brontolo uscì un sorriso, che era gioa, soprattutto stupore.

 

 

Un sorriso che è un attimo, una parentesi momentanea sul suo volto serio, che porta addosso tutti i chilometri di vento avanti a tutti. "Scusate, è il mio carattere, sono fatto così, sono un pessimista di natura". Poche parole, ma che raccontano l'uomo: "L'altra sera ho parlato al telefono con mia moglie e le ho detto 'no, non penso di arrivare con i primi, la gamba non è buona, non è quella dell'anno scorso". Ma le donne conoscono le bugie degli uomini che chiedono attenzioni. "Quando piangi vai più forte", le disse. E così è stato. E quella volta andò forte per sé: una novità: "Erano 7 anni che non vincevo una corsa. Sapete, sono uno che ha sempre vinto poco, anche da dilettante, perché non ho molta volata. Però ho lavorato per capitani importanti e non ho nessun rammarico: Rominger, Museeuw, Chiappucci, adesso Bartoli". E proprio Bartoli in cima al Titano si complimentò con Noè e di Noè però portò in giro il cruccio. Voleva tornare in maglia rosa, voleva vincere la tappa. Non conquistò né l'una né l'altra. Si dispiacque, se ne fece una ragione. Aveva vinto Andrea da Magenta, professione gregario, ma di classe. E quando vince un gregario vince il ciclismo, parola di Marco Pastonesi.

Di più su questi argomenti: