Massimo Recalcati

Massimo Recalcati, ritorno a Lacan (per oltrepassarlo)

Davide D'Alessandro

Ripercorrendo i libri dello psicoanalista milanese è possibile cogliere il segreto del suo successo, che non poggia su aspetti fortuiti ed estemporanei, ma su solide basi, filosofiche e psicoanalitiche, su maestri che ne hanno scolpito l’intelligenza e orientato il cammino

Vuoi per i libri di successo, vuoi per le traduzioni internazionali, vuoi per l’impatto comunicativo, vuoi per il dono con cui trasmette un sapere nuovo e antico, vuoi per le conferenze in cui ci si mette in fila per ascoltarlo, vuoi per il raffinato lavoro clinico, vuoi per il “Lessico” televisivo, vuoi per chi si occupa costantemente di lui, Massimo Recalcati è da qualche anno al centro della scena psicoanalitica e culturale italiana. Eliminando la schiuma, il frastuono generale, i rumori di fondo (non provocati da lui), amo stare sui libri, sulle pagine con cui ha segnato il…ritorno a Lacan per oltrepassarlo, con carica innovativa e singolare inventiva, mentre Lacan ritornava a Freud, sulla risposta a quanti si chiedono chi sia lo psicoanalista, sullo psicoanalista che domanda: ma voi, chi dite che io sia?

Be’, Lacan, per Recalcati, «diceva che non esiste “essere” dello psicoanalista. Il che significa che non si è psicoanalisti anche dopo una vita di pratica psicoanalitica, ma, caso mai, lo si è stati, ci si è rivelati tali, solo nel corso di una determinata cura. In questo senso il tempo dello psicoanalista è sempre al futuro anteriore: “sarò stato” uno psicoanalista in quella cura, per quell’analizzante, in quel momento particolare dell’avventura di un’analisi. Ma bisogna diffidare di coloro che si installano nella posizione di essere analisti. E che pretendono di spiegare come si deve fare per raggiungere questa posizione, che non esiste, ma che questi ovviamente sanno incarnare nella loro purezza. Per Lacan questi tipi erano i peggiori; i peggiori sono coloro che si installano come psicoanalisti». 

Avete provato a leggere Recalcati che scrive di artisti, di creazione artistica? Avete provato a leggere gli studi di Recalcati su psicoanalisi e arte, la ferita della bellezza di Alberto Burri, la melanconia e la creazione in Van Gogh? Provate, poiché scoprirete che «esiste una cattiva applicazione della psicoanalisi al testo dell’arte. È la patografia: ridurre il miracolo dell’opera alle vicende personali, fantasmatiche, sintomatiche del suo autore. Ridurre, io dico, l’inconscio dell’opera all’inconscio dell’artista che l’ha generata. È un grave errore, innanzitutto metodologico, che ha generato applicazioni farsesche della psicoanalisi all’arte. Piuttosto, come già indicava Freud, gli psicoanalisti sono anticipati dagli artisti anche se non lo sanno. La pratica dell’arte è per me un paradigma del processo stesso di soggettivazione come la psicoanalisi lo teorizza: è un atto creativo contingente che però risponde a una anteriorità necessaria radicale che lo rende paradossalmente senza padronanza rispetto alla sua provenienza».

Avete provato a scovare il pensiero di Recalcati sulla notte della psicoanalisi? Provate, poiché scoprirete che «la crisi della psicoanalisi è sotto gli occhi di tutti. Espulsa dalle Università, ristretta per lo più al dibattito letterario culturale (quando va bene), demolita dalle critiche scientiste, cognitivo comportamentaliste, inabissata dal progresso che pare irresistibile delle neuroscienze, inattuale per i costi e i tempi che la sua cura impone, per lo più assente nel dibattito politico-civile… Sembrerebbe un cadavere, un cane morto. Se a questo si aggiunge poi l’ermetismo e lo snobismo di alcuni suoi interpreti, se, cioè, si aggiunge il fatto che gli psicoanalisti e la loro lingua astrusa si sono fatti causa della crisi della loro stessa disciplina… Gli psicoanalisti assomigliano, secondo un racconto di Brecht, a quel Mandarino che affida a una commissione di saggi l’indagine sulle ragioni della povertà estrema che affligge il suo regno. L’esito è sorprendente: la causa della povertà estrema del Regno, riportano i saggi al termine della loro ricerca, sarebbe il Mandarino stesso… Eppure io penso che questo sia proprio il momento – come lo è ogni momento di crisi – per inventare una nuova lingua per la psicoanalisi, per rilanciare la sua scommessa sovversiva, per farsi nuovamente eredi-eretici della sua spinta propulsiva… Perché senza psicoanalisi verrebbe meno una sentinella fondamentale capace di vegliare sul rispetto della singolarità, una voce laica, critica nei confronti di ogni forma di fondamentalismo e di dogmatismo… Innanzitutto quello che ci coinvolge in prima persona; il nostro fondamentalismo, il nostro dogmatismo».

Recalcati non lo si trova e non lo si scova in tv o nei tanti incontri, pur interessanti e coinvolgenti, in giro per l’Italia. Lo si trova e lo si scova nei libri, perché una vita è i suoi libri, nella lezione lacaniana, nella lezione del maestro che affermava: “Siate pure lacaniani, se volete. Io sono freudiano”. Non era una boutade, in quanto «con questa dichiarazione dell’ormai vecchio e malato Lacan al congresso di Caracas del 1980, poco prima della sua morte, egli ha voluto ribadire che l’esperienza della psicoanalisi esige il coraggio dell’invenzione singolare e che non c’è invenzione possibile se non in un campo di eredità. Per lui questo campo è stato quello di Freud; per noi, suoi allievi, deve essere quello di Lacan. Ma cosa significa oggi essere lacaniani sarebbe un vero tema da discutere a fondo. Io penso che Lacan, diversamente da Freud, incoraggi l’eredità come oltrepassamento, deviazione, rifiuto del dogmatismo, creazione, invenzione. Se invece mi guardo attorno i gruppi lacaniani rivendicano ciascuno la propria purezza ortodossa interpretando l’eredità come pura conservazione e clonazione della dottrina di Lacan».

In tanti si chiedono, a causa della sua notevole esposizione, tra conferenze, libri, articoli e televisione, dove trovi il tempo, Recalcati, per fare lo psicoanalista. In realtà, Recalcati frequenta pochissimo la tv, tanto da «rifiutare sistematicamente tutti gli inviti settimanali che ricevo. Appaio in televisione non più di due o tre volte l’anno. La vera novità è stata "Lessico". Fui contattato dal nuovo direttore di Rai 3 che mi propose di fare un programma mio. Gli dissi che la sola cosa che potevo concepire erano delle brevi lezioni supportate da inserti: letture, spezzoni di film. Mi diede carta bianca. Ho girato in presa diretta due "Lessici"; quello Familiare e quello Amoroso. Sono stato occupato per un totale di sette giorni in tutto per le riprese di entrambi i "Lessici". Fine. Tutto qui. Non mi si vede nei talk show, rifiuto di farmi intervistare, comparsate e infinite altre cose che la tv mi ha chiesto negli anni. Ripeto, salvo rare eccezioni. Per esempio, Corrado Augias che mi invita a parlare di un mio libro. La mia settimana è monacale. Non faccio vita mondana, non frequento salotti di nessun genere. Tutto il tempo libero lo dedico alla mia famiglia. Lavoro coi pazienti da lunedi a giovedi dalle 8 alle 21 senza fare pause. Ho la fortuna di dormire poco e di essere stato abituato da mio padre floricoltore a lavorare tanto. Quando sono sotto scrittura per un libro inizio un po' più tardi il lavoro clinico e mi sveglio alle 5 di mattina. Lavoro di lena per almeno le prime tre ore del giorno. Nietzsche diceva che erano le ore migliori per pensare bene».

E al lavoro con i pazienti si frequenta il dolore, lo si accosta, lo si incrocia sul non senso dell’esistenza, lo si penetra: «Il dolore è una esperienza di divisione. La psicoanalisi lavora su di un soggetto diviso. Non sarebbe possibile altrimenti. Ecco perché coi perversi non c’è alcuna possibilità di analisi. Oggi il dolore che trovo predominante è quello della insensatezza dell’esistenza. La vita appare come spogliata di senso. Non c’è desiderio, slancio, spinta verso la vita. Clinicamente questo si traduce con una diffusione epidemica della depressione che rivela la verità in ombra del circo globalizzato del discorso del capitalista».

Se le sedute dei lacaniani hanno un tempo variabile, «perché l’inconscio non risponde alle lancette dell’orologio ma segue una temporalità differente, una temporalità che non è mai quantitativa, spaziale, direbbe Bergson. Il taglio delle sedute – dunque la loro variabilità – sottolinea questa irriducibilità del tempo del soggetto dell’inconscio al tempo cronometrico», il “non c’è rapporto sessuale” intrica i tanti lettori e pazienti inconsapevoli che «per quanti sforzi possano fare i Due per essere Uno, l’essere Uno dei Due risulta impossibile. Anche se moltiplicassimo all’infinito i rapporti sessuali questo non sarebbe sufficiente a fare esistere il rapporto, ossia la coincidenza tra il godimento dell’Uno e il godimento dell’Altro. Gli amanti assomigliano in questo senso ad Achille e la tartaruga nel celebre paradosso di Zenone. Essi sono destinati a non incontrarsi mai».

Se Lacan, nel Seminario VII, afferma che il solo senso di colpa che vale in psicoanalisi è quello di cedere sul proprio desiderio, Recalcati spiega che «la psicoanalisi non è una morale, non istituisce valori, non separa manicheicamente il bene dal male. Significa che l’unica colpa che il soggetto può commettere, dal punto di vista extramorale della psicoanalisi, è quella di venire meno al proprio desiderio, di indietreggiare di fronte alla propria vocazione, di seppellire il proprio talento. Questa è, tra l’altro, la causa maggiore della sofferenza umana: vivere sacrificando il proprio desiderio, vivere nel nome del sacrificio e non in quello del desiderio. Per questo la psicoanalisi invita a sacrificare il sacrificio al posto del desiderio».

Recalcati è stato bocciato alle elementari, poi ha frequentato l’Istituto Agrario, poi Filosofia, poi eccoci qui. È stato possibile invertire la rotta perché «mi sono innamorato. Mi sono innamorato della mia giovane professoressa di lettere che incontrai nella scuola professionale di Quarto Oggiaro di Milano frequentata da ragazzo. Questo incontro mi spalancò un nuovo universo. Ero in ritardo ma ancora in tempo. È sempre così in fondo. Siamo sempre in ritardo ma ancora in tempo. Io diffido di coloro che sono sempre stati i primi della classe… Penso che non sia mai troppo tardi per ricominciare a vivere».

Ho visto la traduzione in inglese di Le mani della madre, appena presentato a Londra, uno dei suoi libri più intensi. Per lo psicoanalista milanese «non esiste istinto materno, ma esiste dono materno. La maternità per me è una grande figura della donazione. Medea incarna l’assenza di dono perché uccide i propri figli. In essa prevale la donna contro la madre. È la ferita della donna – umiliata da Giasone – a determinare il voto di morte della madre. È un dato della clinica: a volte il rifiuto della maternità può essere la ritorsione della donna umiliata dall’uomo».

Ma non esisterebbe il Recalcati psicoanalista senza il Recalcati che arde di passione filosofica, senza la maestria e la cura del professore Franco Fergnani, al quale «devo molto, moltissimo. Se Giulia mi aveva aperto ad un nuovo mondo, Fergnani fu il primo ad accompagnarmici dentro. Ricordo ancora la sua voce, la sua parola affilata, rigorosa e precisa. Le sue lezioni hanno lasciato in me una impronta indelebile. Non sarei quello che sono senza averlo incontrato. Mi pento solo di non aver dato a lui quella presenza e quell’affetto che invece ho riservato ad altri maestri che non lo meritavano affatto…».

I libri di Recalcati sono utili anche per comprendere, dopo e con la madre, il padre, il maestro, l’intenzione e/o la necessità di ucciderli o risparmiarli. Per l’autore di libri decisivi su ciò che resta del padre, «non c’è vita senza padre. La vita proviene sempre da un Altro da sé. Nessuna vita – se non quella di Dio – è padrona delle sue origini. Nella lingua slava padre si traduce con “colui che ti dona e scarpe”. Ovvero con lo strumento che ti permette di andartene, di viaggiare, di entrare in altri mondi. Padre non è tanto per me il nome dell’autorità ma il nome di una Legge che mette in moto la vita».

Mentre il segreto del figlio è «il suo desiderio. Il dono dei genitori è il dono della separazione, cioè il dono del rispetto del segreto. È strano ma è la caratteristica peculiare di ogni legame familiare. Esso deve costituirsi come un legame destinato a sciogliersi... Il fine del legame è cioè lo scioglimento stesso del legame. Solo se c’è rispetto verso il segreto del figlio, verso la sua differenza assoluta, c’è stato un legame familiare capace di sciogliersi nel tempo giusto… Dovremmo sempre avere fede nei confronti del segreto del figlio.  La fede verso il segreto del figlio rafforza il desiderio del figlio. È il dono più grande che possiamo fare ai nostri figli».

Sono andato a Nola il mese scorso, a camminare sulle pietre del suolo natio di Giordano Bruno, per ascoltare Recalcati sulla figura del padre. La Cattedrale era gremita. C’erano tanti padri, tante madri, tanti figli. Osservavo loro e ascoltavo lui mentre ripassavo nella mente titoli, temi, pagine e venature dei suoi libri. Il nostro tempo favorisce, non solo in politica, l’esaltazione rapida di chi si espone, come ne favorisce l’annientamento immediato. Ma il nostro tempo, tempo di selfie e di like, è anche il tempo dove un legno storto ha saputo raddrizzarsi, non totalmente (guai se l’avesse fatto!), grazie ai maestri, agli incontri, alle letture, alla scrittura, al suo “essere stato” umilmente psicoanalista. Qualcuno un giorno sarà chiamato a tornare a Recalcati per oltrepassarlo, come lui è tornato a Lacan, come Lacan a Freud. Accadrà non perché va qualche volta in tv, non perché è apprezzato (dalla gggente) e disprezzato (da chi non gli perdona il successo), bensì perché sa chinarsi sul dolore, sa viverlo e rappresentarlo, chinandosi da anni, giorno dopo giorno, ora dopo ora, taglio dopo taglio, sul proprio dolore. Che non è mai televisivo. È il dolore di chi scrive la propria vita attraverso una relazione, di chi lascia traccia del proprio passaggio, senza mai dimenticare che su quella traccia altri hanno lasciato traccia.