Giampiero Mughini

Era di maggio, il '68 di Mughini

Davide D'Alessandro

È un libro dove si confrontano l’uomo di adesso e il giovane di cinquant’anni fa, senza rinnegare alcunché, facendo rivivere immagini, parole ed emozioni che mai lo abbandonano

Ho atteso anni affinché Giampiero Mughini tornasse a strabiliarmi come fece nel 1987 con Compagni, addio, l’addio alle Grandi Cause, alle Grandi Battaglie, alla sua giovinezza, per darci e darsi la misura delle piccole cause, delle piccole battaglie che danno colore e sapore alla vita quotidiana. Una cena con un’amica, un libro da leggere, una mostra da visitare, un articolo da scrivere. Ho atteso anni affinché mi raccontasse il ’68, quei giorni vissuti anche da chi, come me, non li visse avendo soltanto due anni, quei giorni che entrarono nella circolazione sanguigna di chi li visse e nella mente di chi, senza viverli, non ha mai smesso di sentirne parlare, ora male ora bene, ora come della scoperta dell’America ora come di una banale perdita di tempo.

  

Di Mughini mi fido perché ha una fibra che non gli consente la finta, perché antepone la vita, il respiro di ogni attimo di vita, a tutto il resto. Era di maggio. Cronache di uno psicodramma, edito da Marsilio, si apre col botto: “Già trascorsi cinquant’anni, porco mondo”. Già, cinquant’anni. “Cinquant’anni che non la smettiamo di ruminarci sopra. Su quelle tre inaudite settimane di un dolce e furibondo maggio parigino. Sull’inafferrabile mistero del perché quella primavera, e nella più bella città d’Europa, si scatenò un tale pandemonio e di una tale entità fattuale e simbolica. Ancora una settimana prima, a Parigi nessuno ne aveva avuto il benché minimo sentore”.

 

Segnalo le pagine su Dany Cohn-Bendit e, ancor più, quelle su Guy Debord, sul nulla che in tanti avevano da dire, ma volendolo dire a tutti i costi, sul mitico Teatro dell’Odéon, restato aperto tre settimane a operai e studenti: “È un luogo sacrale dove solo a entrarci vengono i brividi, se pensi a quello che per quasi due secoli è stato pronunciato e ascoltato fra quelle mura nella lingua francese, che era allora la lingua di ogni europeo colto”, poi disinfestato per i tanti barboni che ci dormirono e depositarono di tutto; sullo stesso Mughini che fece da guardia volontaria per cinque o sei ore a una stanza buia pensando di salvaguardare il sonno di tanti studenti che avevano passato la notte insonne, salvo poi scoprire che aveva fatto da guardia a una stanza perfettamente vuota, esempio di uno psicodramma collettivo, per dirla con la definizione di Raymond Aron; su un ragazzo che urlò “canaglia” al padre in divisa e il padre scoppiò a piangere; sui due morti, un commissario di polizia, a Lione, e un giovane di ventisei anni, a Parigi, nella notte tra il 24 e il 25 maggio; sull’ottimo funzionamento del grande liceo di Versailles e sui treni che dalla capitale spaccavano il secondo.

 

È un libro dove si confrontano il Mughini di adesso e il Mughini di cinquant’anni fa, senza rinnegare alcunché, facendo rivivere immagini, parole ed emozioni che mai lo abbandonano: “Un ragazzo francese che mi stava accanto me lo chiese perché stessi lanciando dei sassi e con tale entusiasmo, un gesto che in sé non valeva nulla di nulla. Ricordo, purtroppo, la mia risposta: Parce que j’aime ça. Mi piaceva farlo. Perché? Per frangere il dolore e la solitudine che mi portavo dentro. Sì, credo per quello. Parole che mi condannano. Vivevo uno psicodramma”.

 

È un libro sulla surrealtà delle accensioni ideologiche, su ciò che non vedi mentre corri e combatti all’impazzata con la violenza delle parole e l’ardore dei vent’anni, su ciò che non vedi mentre la vita continua a scorrere ed è lei che vince alla fine e sempre, con i suoi battiti regolari, con le sue luci e ombre, con la sua fortezza inespugnabile. La vita, l’unica, vera rivoluzione possibile. La stessa che si impadronì dei due giovani dei quali si narra a pagina 103. Partirono in auto da Roma per “ tastare il sapore di quanto stava avvenendo in Francia. Arrivarono a Parigi e si installarono in un alberghetto della periferia. Durante il viaggio lei non aveva detto una sola parola, solo aveva ostentato le gambe che accavallava e riaccavallava sapientemente. Intimidito da quelle gambe e dalla misteriosità della ragazza, il mio amico per tutto il viaggio non le chiese nulla. A Parigi rimasero per quarantott’ore chiusi nell’alberghetto, potete bene immaginare a fare che cosa. Non andarono neppure una volta al Quartiere latino. Consumate quelle quarantott’ore tornarono in Italia, mettendoci di nuovo un’infinità di tempo. Arrivati a Roma, e senza che lui sapesse della ragazza molto di più di quello che sapeva all’inizio del viaggio, lei lo salutò con un bacio in bocca. Non l’avrebbe mai più rivista in vita sua. Una bellissima storia, ne converrete”.

 

Certo che ne conveniamo. Era di maggio. E fu un viaggio di vita vera, una cronaca di vita vera, non di uno psicodramma.