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Il confine innevato tra le autocrazie e noi

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Mosca e Minsk usano i migranti come arma e anche tra europei ci sono tentativi di destabilizzazione. Dalla Finlandia alla Polonia, passando per Budapest

Il confine che divide la Finlandia e la Russia è lungo 1.340 chilometri. Lungo quella frontiera si sono combattute guerre; finlandesi e russi si sono contesi chilometri, cittadini, regioni. Poi è arrivato il tempo delle  prove per un cauto e gentile vicinato, fino a quando moine e gentilezze sono state impossibili da portare avanti. Dopo l’aggressione russa del 24 febbraio contro l’Ucraina lo spazio dell’Europa e dell’occidente è cambiato per sempre. La Finlandia, che si era imposta un’apparente neutralità per non indispettire Mosca, ha deciso di scrollarsi di dosso le apparenze ed è entrata nella Nato, raddoppiando di fatto il confine tra il Cremlino e l’Alleanza atlantica. La Russia si è ritrovata vicino  nuove truppe, ben addestrate: un fallimento strategico. E in qualche modo doveva pur dimostrare di reagire. Come? Non con le armi, ma con degli esseri umani: i migranti. Quando le truppe di Vladimir Putin si ammassavano al confine con l’Ucraina, circolava una parola scrupolosa, che suona come uno scioglilingua geopolitico, quindi con poco senso. La proposta che in tanti avanzavano per accontentare il Cremlino era quella di procedere con la finlandizzazione dell’Ucraina, quindi, di mettere nero su bianco che Kyiv mai e poi mai, guai ai posteri, sarebbe entrata nell’Alleanza atlantica.

 

Lo status neutrale della Finlandia era quasi un atto di cortesia e il paese aveva deciso di rimanere fuori dalla Nato pur mantenendo dei rapporti e delle collaborazioni con i membri dell’Alleanza. Non che non temesse la Russia, anzi, Helsinki e Mosca si erano già sfidate nel 1939, durante la Guerra d’inverno che si concluse non come speravano i sovietici – con l’annessione della penisola – ma con la cessione di parte di territorio da parte della Finlandia che però riuscì a mantenere la sua indipendenza. La resistenza finlandese colpì il mondo intero, il Golia sovietico era stato fermato e i finlandesi per l’occasione inventarono anche degli ordigni che sono spesso utilizzati nelle azioni di guerriglia. Scoprirono che erano molto efficaci contro i soldati di Mosca e li ribattezzarono molotov, come beffa nei confronti del politico sovietico che da pochi mesi aveva siglato il patto con il suo omologo tedesco Ribbentrop. A ottantatré anni di distanza dalla Guerra d’inverno, dopo l’attacco contro Kyiv, anziché assistere alla finlandizzazione dell’Ucraina, abbiamo assistito all’ucrainizzazione della Finlandia che è entrata nella Nato beffandosi, ancora una volta, del Cremlino. Il confine si è fatto sempre più chiuso e militarizzato e negli ultimi mesi  le autorità finlandesi hanno notato dei movimenti atipici: uomini in sella a delle biciclette si sono presentati alla frontiera per chiedere asilo. Da dove venivano? Dalla Russia. Sono stati condotti vicino ai valichi, in una zona molto controllata a cui è difficile avere accesso senza il consenso delle autorità. E a qualche chilometro dalla frontiera qualcuno ha dato loro delle biciclette per procedere – ci sono immagini che mostrano uomini vestiti di nero su furgoncini pieni di bici. Tra queste persone che bussano alla porta della Finlandia ci sono somali, yemeniti e siriani, nessun russo,  che percorrono chilometri lungo un territorio già innevato. Helsinki ha già chiuso quattro valichi, i primi movimenti sono iniziati da agosto, ma stanno aumentando, per questo il primo ministro della Finlandia, Petteri Orpo, ha accusato la Russia di voler creare una crisi migratoria ai confini dell’Europa. Dopo tutto, esiste un precedente, e non è lontano. 

 

Da agosto le autorità finlandesi notano che uomini in bici arrivano ai valichi con la Russia. Sono somali, yemeniti e siriani

 

Il confine di Minsk. Non c’è argomento che ha dimostrato di saper paralizzare l’Unione europea più dell’immigrazione. Lo hanno capito bene i suoi nemici, e lo ha capito molto bene  Aljaksandr Lukashenka. Nel 2021, a ritmo sempre crescente, il dittatore bielorusso  iniziò a organizzare un vero traffico di migranti. Aveva intensificato i voli da alcuni paesi come l’Afghanistan, l’Iraq e la Siria. Famiglie di disperati rimanevano alcuni giorni a Minsk, poi venivano portati al confine con la Lituania e con la Polonia e venivano buttati dall’altra parte della frontiera. Quando i numeri iniziarono a crescere, le autorità, soprattutto in Polonia, il paese più colpito, bloccarono il confine. I migranti si ritrovavano in una terra di nessuno, stretti tra gli spintoni delle guardie di frontiera di Minsk e di Varsavia con temperature rigide. Al confine bielorussi ci sono tendopoli in cui nessuno può controllare come vivono i migranti. Alcuni sopravvissuti hanno raccontato di condizioni disumane, vivono sotto il ricatto e le minacce delle autorità di frontiera. In Polonia invece, c’è una zona oltre il confine in cui non può accedere nessuno se non le guardie polacche che finora hanno spesso avuto l’ordine di rimandare indietro i migranti con metodi anche violenti. Sono tanti i cittadini che in Polonia sono impegnati nel salvataggio dei migranti, si inoltrano nella foresta di Bialowieza per aiutarli, ma legalmente possono fare poco. Mikolaj Grynberg è uno scrittore polacco, il suo ultimo romanzo si intitola “Gesù è morto in Polonia”. Lui ha incontrato i migranti nella foresta e non poteva sapere né credere che in territorio europeo delle persone in cerca di una vita migliore vengano stipate in un territorio in cui  i diritti non valgono più, in cui  l’Unione europea, che sa tutto,  non esiste. Grynberg ci ha detto che tutte le mattine controlla la temperatura alla frontiera, lo ha fatto anche in nostra presenza. A un regime come quello di Lukashenka l’Europa ha risposto allo stesso modo e la propaganda di Minsk unita a quella di Mosca sono state bravissime a sottolinearlo. I migranti arrivano ancora dalla Bielorussia, non hanno mai raggiunto cifre  da  “emergenze”, ma tanto è bastato ad allarmare le autorità brussellesi e quelle polacche.

 

Migranti elettorali. Lukashenka e Putin sanno bene che l’immigrazione è uno di quei temi su cui in Europa si sono giocate molte campagne elettorali. E’ stato così anche nell’ultima campagna elettorale in Polonia, dove il PiS è arrivato primo partito e attualmente sta cercando di formare un governo senza avere i numeri: ha tempo fino a fine anno. Mentre c’è già un’opposizione pronta,  una coalizione solida, guidata da Donald Tusk, e che ha già firmato un patto di coalizione. Il PiS aveva organizzato gran parte della campagna sui migranti. La televisione pubblica che si chiama TvP (ma in questi anni è stata ribattezzata TvPiS) mandava in onda programmi su programmi sul rischio che la Polonia in mano a Tusk e a Bruxelles potesse  trasformarsi in un paese di  bande di migranti criminali. Le scene in televisione erano di violenza e di fiamme, venivano chiamati esperti da città scandinave che raccontavano il disastro della politica dell’accoglienza. A guardarli questi programmi sembravano fantascienza e deve essere sembrato lo stesso  anche ai polacchi, che il 15 ottobre erano chiamati a votare anche per un referendum sui migranti, ma in molti hanno rifiutato la scheda elettorale: il referendum non ha raggiunto il quorum. Al lavoro allarmante e minuzioso della televisione di stato si era aggiunta anche una campagna ungherese. Viktor Orbán ha aiutato il PiS, con pessimi risultati, e secondo un’inchiesta del settimanale polacco Tygodnik Powszechny avrebbe pagato anche pubblicità antimmigrazione su YouTube subito prima delle elezioni in Polonia. 
 

L’Ungheria ha aiutato il PiS nella campagna elettorale confezionando anche spot anti immigrazione su YouTube


Il questionario di Orbán. Nel fine settimana, molte parti dell’Ungheria sono state tappezzate dai cartelloni della nuova campagna di Viktor Orbán contro l’Europa invadente che vuole imporre le sue idee e le sue politiche agli stati membri e che intanto crea “ghetti per migranti” in tutto il suo territorio. E’ una campagna incentrata sull’immigrazione, ma il premier ungherese non si lascia certo scappare l’occasione per ricordare che gli aiuti finanziari e militari all’Ucraina – uno dei paesi confinanti dell’Ungheria – sono eccessivi e vanno ridimensionati, se non sospesi, e che l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue non s’ha da fare. E’ una campagna in vista delle elezioni europee ma anche una consultazione: agli elettori ungheresi è stato inviato un questionario – dal titolo: “In difesa della nostra sovranità” – con undici domande in cui sostanzialmente si chiede se sono al corrente del fatto che Bruxelles spende tutti i suoi soldi per gli ucraini e agli ungheresi non vuol dare un euro. Al quarto punto si legge: “Bruxelles vuole creare dei ghetti di migranti anche in Ungheria”. Cosa ne pensi? Due scelte: “Non dobbiamo permettere che siano creati dei ghetti nel nostro paese”; “Il piano migratorio dell’Ue deve essere accettato”. Il prossimo mese l’Ue dovrà decidere se l’Ungheria ha fatto abbastanza per ripristinare le regole dello stato di diritto e avere così i finanziamenti comunitari: come è noto, questi fondi sono essenziali per Orbán, e infatti molte volte quest’anno il premier ungherese ha ammorbidito parte della sua ostilità per ottenerli, ma questa nuova campagna sembra voler azzerare queste parziali aperture. La resa dei conti potrebbe esserci al prossimo vertice europeo a metà dicembre, quello in cui appunto si dovrà anche decidere del futuro dell’Ucraina dentro l’Ue. Il cuore della protesta ungherese però resta l’immigrazione: in uno dei cartelloni pubblicitari ci sono Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, e Alex Soros, il figlio di George Soros (che è ungherese naturalizzato americano, nemesi di Orbán e obiettivo costante della sua propaganda) che ha preso la guida delle organizzazioni del padre: la scritta dice “non balliamo al ritmo definito da loro”. Non è una novità: nel 2019, in vista delle elezioni europee di quell’anno, sui cartelloni c’erano il predecessore della von der Leyen, Jean Claude Juncker, e Soros padre. Alla riunione del suo partito, Fidesz, che c’è stata nel fine settimana, Orbán ha detto: “Dobbiamo dire di no al modello costruito da Bruxelles”. Intende tutto il modello, ma soprattutto quello dell’accoglienza e di nuovo accusa l’Ue di essere succube di Soros che architetta una sostituzione etnica nel nostro continente. Secondo i dati del Processo di Praga, un’iniziativa di collaborazione tra stati europei e paesi confinanti sull’immigrazione creata nel 2009, in Ungheria – che ha circa 9 milioni e mezzo di abitanti – nel 2022 sono arrivati 202.525 immigrati, di cui oltre la metà provenienti dall’Ue, in particolare da Germania, Romania e Slovacchia. Ci sono anche 55 mila asiatici e circa 31 mila ucraini. Nel 2021 sono state presentate 40 richieste di asilo (nel 2015 erano 177 mila) ed è stato concesso lo status di rifugiato a 35 persone. 

 

L’immigrazione non è quindi un problema per l’Ungheria, semmai lo è per i paesi che condividono i loro confini con lei. Un esempio: a fine ottobre, la Slovacchia e la Slovenia hanno reimposto i controlli alle frontiere con l’Ungheria. A settembre la Slovacchia aveva registrato 13 mila immigrati, più del 2022 tutto intero. A Hont, un paesino ungherese vicino alla frontiera, i cittadini si tengono lontani dai “contrabbandieri” che scaricano i migranti che poi corrono verso il confine. Per lo più vogliono andare in Germania, ma a molti in Slovacchia è chiaro il doppio gioco di Orbán sui migranti, con un tempismo perfetto peraltro: il 30 settembre ci sono state le elezioni in Slovacchia, dove ha vinto Robert Fico, il principale alleato di Orbán in Europa. Le alleanze non esistono più quando si parla di immigrazione, esistono soltanto i confini innevati, umidi, assolati, che molti nemici dell’Ue guardano come un problema, o come un’arma, che più che a noi, fa male a chi cerca di raggiungerci.