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Anatomia della coalizione dei jet che sostiene Kyiv

Paola Peduzzi e Micol Flammini

L’accordo rapido sugli F-16, grazie a una fiducia a lungo termine e tre vantaggi chiari. La divisione dei compiti, i problemi e una curva d’apprendimento geniale

La Russia sostiene che inviare i jet occidentali in Ucraina è “un rischio colossale”, ha detto un giornalista a Joe Biden, in conferenza stampa al G7 di Hiroshima. “Sì, lo è – ha commentato il presidente americano – Per loro”, cioè per i russi, che dovranno rivedere ancora una volta la loro strategia nella guerra contro l’Ucraina – guerra che stanno in ogni caso perdendo. Biden ha ricevuto rassicurazioni da parte del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky: l’esercito di Kyiv non utilizzerà gli F-16 dentro ai confini geografici della Russia, “ma dove ci sono i soldati russi nel territorio ucraino sì”, dappertutto. Il principio è sempre lo stesso: l’Ucraina si difende dall’aggressione russa e i suoi alleati le danno il sostegno militare necessario a rendere questa difesa efficace, quindi vincente. I molti detrattori di Kyiv, di Biden e dell’occidente sposano la versione russa del “rischio colossale” costituito dalla cosiddetta “jet coalition” e la definiscono escalation, stravolgendo l’evidente rapporto causa-effetto: se Vladimir Putin smettesse di attaccare e aggredire, l’Ucraina non avrebbe bisogno di maggiori mezzi per difendersi. Sempre i molti detrattori rinfacciano al presidente americano anche di aver detto in passato che non avrebbe fornito aerei a Kyiv perché sarebbe stato pericoloso: lo aveva detto, certamente, ma un anno fa, quando la guerra aveva una faccia molto diversa e anche gli obiettivi di difesa erano diversi. Oggi gli alleati dell’Ucraina studiano una strategia a lungo termine in cui il paese aggredito possa essere in grado di continuare a difendersi in modo sempre più autonomo e per tutto il tempo che sarà necessario. La decisione di costruire la “jet coalition” fa parte di quell’approccio incrementale alla guerra che ha fatto spesso arrabbiare la stessa Ucraina. Alcuni commentatori americani dicono che Biden è come quei padri burberi che come prima risposta danno sempre “no”, ma che poi si fanno convincere.

 

Chi ha convinto Biden. In questo caso a convincere papà Biden sono stati il segretario di stato americano, Antony Blinken, il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, e il capo del Pentagono, Lloyd Austin. Sono loro che hanno iniziato già a febbraio a consultare gli alleati europei sulla possibilità di costruire uno scudo aereo per l’Ucraina: ci sono stati incontri,  telefonate, discussioni. Il primo passo è stato: cominciamo ad addestrare i piloti ucraini, che è un’attività che richiede molto tempo. Sullivan aveva cominciato a pensare a come sostenere la modernizzazione a lungo termine della forza aerea ucraina lo scorso anno dopo aver visitato Kyiv e la Polonia, a novembre. Già allora la domanda non era “se”, ma “quando”. A febbraio, in visita in Europa e in Ucraina per il primo anniversario della guerra, Biden ancora diceva: “Non adesso”. Era appena stata faticosamente costruita la “Leopard coalition”, l’invio dei carri armati, le energie diplomatiche erano concentrate su addestramento e consegna dei carri. Il mese scorso, alla riunione degli alleati dell’Ucraina nella base militare di Ramstein, in Germania, il generale Austin ha consultato tutti sulla possibilità di avviare l’addestramento dei piloti ucraini e ha ottenuto il mandato di sottoporre la questione a Biden. Quando si è presentato dal presidente, lo ha trovato già mezzo convinto. Era stato Blinken a dimostrargli, dichiarazioni e fatti alla mano, che la retorica di Putin era sempre stata minacciosa in modo quasi indipendente dalle decisioni militari degli alleati: lui la guerra continua a farla in ogni caso, insomma, bisogna allora pensare a come strutturare ulteriormente la capacità di difesa dell’Ucraina. L’8 maggio, incontrando i colleghi europei, Sullivan ha dettagliato il piano in due fasi della “jet coalition”: cominciamo l’addestramento dei piloti, poi ci saranno le consegne. Quando venerdì scorso Biden è arrivato al G7 a Hiroshima – G7 che è poi diventato un G8 con l’Ucraina – era pronto a rendere pubblico il suo sostegno, anche per sfatare quel che si diceva in molti corridoi e articoli e cioè che, se la controffensiva ucraina in partenza non fosse andata bene, gli americani avrebbero iniziato a essere meno generosi con Kyiv. La “jet coalition” è un piano per la seconda parte dell’anno, esiste già anche senza sapere come andrà la controffensiva: la fiducia degli alleati è a lungo termine. 

 

Sono stati Blinken, Austin e Sullivan a convincere Biden proponendo un percorso a tappe. Il primo passo: l’addestramento

 

Chi è dentro. Ci sono nomi sicuri, alcuni che hanno spinto più degli altri, poi ci sono i tentennamenti. Ma la rapidità con cui la coalizione è nata e si è sviluppata segna che il sostegno all’Ucraina non si è incrinato e gli alleati alla guerra lunga di Putin contrappongono la velocità delle decisioni. Della coalizione fanno parte il Regno Unito, che della coalizione è stato il tessitore con il premier Rishi Sunak, Belgio, Francia, Portogallo hanno detto che sono pronti ad addestrare i piloti, poi ci sono i paesi che potrebbero anche dare i jet:  Polonia, Danimarca, Paesi Bassi, Norvegia e Romania. Non tutti i paesi hanno in dotazione gli F-16, ma alcuni sanno come usarli e come addestrare i piloti ucraini. Poi c’è l’Italia che, come ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, “valuta con gli alleati”, partendo da una considerazione: non abbiamo più F-16 dal 2012. In Italia i jet sono rimasti in servizio per nove anni,  per un totale di 34 caccia noleggiati dal 2003 in attesa dell’arrivo degli Eurofighter. Esclusa quindi la possibilità di mandare F-16, l’Italia potrebbe aggiungersi alla coalizione collaborando all’addestramento in una delle basi Nato che ancora li utilizzano. Ma non è poi così facile trovare gli addestratori: quando i caccia arrivarono in Italia, furono destinati soprattutto ai veterani, quindi già esperti, alcuni istruttori sono già in pensione, potrebbero essere richiamati, ma non tutti lo ritengono utile dal momento che gli altri paesi hanno già istruttori pronti e in servizio. Un altro tipo di aiuto che potrebbe fornire l’Italia è a livello teorico, il passo precedente: formare i piloti sulla dottrina dell’uso  delle forze aeree. Il segnale che vuole mandare Giorgia Meloni è importante e non ha bisogno neppure di inoltrarsi nei guazzabugli della politica e del finto pacifismo, perché l’addestramento dei militari ucraini è già stato votato nei precedenti pacchetti approvati in Parlamento e non cambierebbe per i piloti. In questa coalizione che cresce e si espande, si sente però un vuoto: la Germania.
 


L’assenza tedesca. Con meno clamore e senza merendine maculate che spuntano nelle pasticcerie di Kyiv, sembra essere tornati ai tempi in cui  si parlava dei carri armati Leopard e il cancelliere tedesco Olaf Scholz tentennava. Proprio come allora, ma senza ruolo da protagonista visto che Berlino non ha gli F-16 mentre i Leopard li aveva eccome, Scholz ha detto: “Al momento la Germania non prevede di partecipare alla coalizione dei jet”. Gustav Gressel, esperto di conflitti presso lo European Council on Foreign Relation a Berlino, ci ha detto che però questa volta il cancelliere ha ragione: la Germania ha i Tornado e gli Eurofighter, che non sono i velivoli richiesti dall’Ucraina. I primi, soprattutto, sono considerati obsoleti “tant’è che Italia e Regno Unito li hanno mandati in pensione”. Gressel spiega che i Tornado hanno un’operatività solo aria-terra “mentre Kyiv ha bisogno di mezzi aria-aria”. E neppure gli Eurofigther vanno bene trattandosi di aerei da combattimento molto più costosi e logisticamente complicati rispetto agli F-16. La formazione è poi un argomento dolente in Germania. L’esercito tedesco prima dell’invasione russa contro l’Ucraina era considerato un ferro vecchio su cui era meglio non investire, fino alla decisione di Scholz di varare un fondo speciale di cento miliardi per rinnovare la Bundeswehr. In Germania molti piloti hanno perso la licenza a causa della mancanza di ore di volo: senza manutenzione molti velivoli sono rimasti a terra negli anni. Quindi è complesso anche trovare chi in Germania potrebbe addestrare gli ucraini. Il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius ha però detto che Berlino sta cercando di capire come poter essere utile alla coalizione. Secondo Gressel  “quello che però i tedeschi possono fare è imparare a prendere decisioni più in fretta”, ma il campo di azione della Germania è saldamente a terra: “Si può immaginare l’acquisto di più Leopard, la cessione di più carri Martora come anche chiedere al Bundestag di accelerare sull’approvvigionamento delle armi”.

 

I problemi dei jet. I piloti ucraini voleranno con gli F-16 nei cieli ucraini, ma gli ostacoli esistono. Il primo riguarda proprio l’addestramento con i tempi strettissimi. La formazione per un F-16 dura quattro mesi, due servono per imparare a pilotare, altri due abbondanti per saper utilizzare l’assetto da combattimento – e non bisogna formare soltanto i piloti, ma anche l’assistenza tecnica, il personale di terra. Quattro mesi è il tempo stimato per chi è già in possesso di una buona competenza su velivoli simili, gli ucraini finora hanno usato sistemi sovietici, completamente diversi, ma hanno dimostrato di imparare in fretta. Quando gli F-16 saranno in Ucraina, Kyiv dovrà affrontare altri problemi. Il primo è la manutenzione. Ci sono circa sessanta F-16 pronti per essere utilizzati dagli ucraini, ma le componenti elettroniche non sono facili da trovare e ne servono a tonnellate. L’impresa logistica è massiccia, i rifornimenti devono essere frequenti, quindi l’unico modo per assicurare la manutenzione dei caccia è che i paesi confinanti con l’Ucraina siano sempre pronti a fornire parti e componenti utili. Il terzo problema riguarda la possibilità che gli F-16 vengano colpiti dai missili russi e che alcune  parti finiscano nelle mani di Mosca. I caccia dovrebbero dotarsi di accorgimenti per essere meno in vista, come volare basso, ma questo ridurrebbe le sue capacità di attacco e la possibilità di colpire le postazioni russe da una distanza  sicura. I caccia russi inoltre si sono dimostrati particolarmente letali contro i Mig-29 e i Su-27 ucraini perché la Russia ha dei radar migliori per tracciare gli aerei di Kyiv e anche dei missili a lungo raggio per abbatterli efficaci. Il sistema radar degli F-16  non è più evoluto di quello che usano i russi. Il quarto problema riguarda l’atterraggio. Finora gli ucraini hanno utilizzato tecniche di guerriglia negli atterraggi, cercando di non svelare a Mosca la localizzazione delle proprie  basi. Mentre gli aerei sovietici possono atterrare praticamente ovunque –  il Mig-29 per esempio utilizza delle coperture automatiche per evitare che nel motore finiscano sassi e detriti, che si trovano in abbondanza dove si atterra senza una pista aeroportuale – gli F-16 no. Anzi, sono particolarmente delicati,  poco adatti agli atterraggi di fortuna e hanno un motore solo, se si rompe non ci sono possibilità. Gli aerei sovietici sono più facili da riparare, non serve un personale altamente specializzato, per i caccia occidentali invece anche chi ripara deve essere formato. Inoltre se l’Ucraina ha già confidenza con i pezzi di ricambio dei velivoli sovietici, per gli F-16 sarebbe molto più dipendente dall’assistenza occidentale. Se si rompe un’ala, Kyiv potrebbe ritrovarsi nella condizione di doverla mandare in Polonia a riparare.

 

Gli F-16 avvicineranno Kyiv alla dottrina della Nato, indispensabile per il futuro. Le fragilità, dalle piste ai ricambi 

 

Perché allora gli F-16? Brynn Tannehill, ex aviatrice americana, ha scritto una lunga spiegazione su Twitter sui pro e i contro degli F-16. Passando ai caccia occidentali, gli ucraini si avvicinano alla dottrina atlantica dell’aeronautica, mentre adesso le loro forze sono tarate su quella sovietica. I caccia difficilmente daranno a Kyiv la superiorità nei cieli, sono jet  di circa quarant’anni, con un aggiornamento della metà degli anni Novanta: non sarà l’arma decisiva, ma i vantaggi non sono pochi. Il primo è difensivo: aiuta Kyiv a proteggersi dagli attacchi combinandosi assieme all’azione dei Patriot, contribuendo allo scudo che serve all’Ucraina. Il secondo è a lungo termine: se per il momento ottenere parti di ricambio di un Mig è relativamente semplice,  diventerà sempre più complicato perché sono di fabbricazione russa. Quindi se è complesso ma fattibile chiedere ai polacchi un pezzo di ricambio, è fantascientifico chiederlo ai russi. Per quanto non di ultima generazione, gli F-16 sono la premessa all’acquisizione di missili a lungo raggio con ottime capacità di attacco contro i bersagli difficili e si aggiungerebbero all’azione degli Himars. Alcuni dei missili che potrebbero andare in dotazione agli F-16, per esempio, potrebbero cambiare gli equilibri nel Mar Nero. Difesa, attacco e controllo del mare bastano a delineare i vantaggi per l’Ucraina e per superare gli ostacoli, che pure ci sono, la jet coalition è essenziale. 

 

Ne abbiamo già sentite di storie incredibili sugli ucraini in volo. Inventate come il fantasma di Kyiv, che poi non è mai esistito. Vere, come i piloti che di notte volando bassi per non farsi intercettare dai radar russi portavano i rifornimenti nella Mariupol che resisteva nelle sue acciaierie e tornavano indietro con un carico di feriti. Gli F-16 non cambieranno la guerra dall’oggi al domani. Ma sono un tassello per cambiare la storia. 

(ha collaborato Daniel Mosseri da Berlino)