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Un Orbán molto ristretto nella Grande Ungheria

Paola Peduzzi e Micol Flammini

La sciarpa che sembra uno schiaffo all’Ucraina, l’economia in dissesto, un profilo twitter da principiante e gli amici scomparsi. Una storia di dispetti

Il Viktor Orbán tifoso ha la sua squadra del cuore, il Viktor Orbán premier ha la sua squadra personale. Ogni Mondiale è un trauma per l’Ungheria, che non soltanto non è  in Qatar, ma l’ultima volta che ha giocato in una Coppa del mondo era nel 1986 in Messico, quando già la nazionale soffriva il problematico paragone con una squadra che aveva fatto innamorare l’Ungheria e l’Europa.  Negli anni Cinquanta Budapest aveva la nazionale più forte del mondo, una rosa portentosa che le aveva valso il nome di Squadra d’oro e l’appellativo di Grande Ungheria. Fu una squadra davvero sfortunata, con fuoriclasse innamorati del calcio e della loro nazione, ma che avevano contro la storia:   la loro avventura si dissolse nel 1956, quando arrivarono a Budapest i carri armati di Mosca.

 

Orbán, che all’epoca non era neppure nato ma che per il calcio impazzisce, sogna di riuscire a costituire una nuova nazionale altrettanto mitologica, potente, ambiziosa e per questo ha fatto dello sport uno dei pilastri della sua avventura da premier. L’Orbán primo ministro, essendo vorace e non sempre paziente, nel frattempo ha deciso di finanziare massicciamente il calcio, di far costruire vari stadi, uno sembra una cattedrale nel deserto del villaggio in cui è cresciuto, lo sparuto Felcsút di 1.600 abitanti che oggi da qualsiasi angolo vede spuntare la possente Pancho Arena, dove si allena la squadra che senza Orbán non esisterebbe. La Puskas Akadémia è dedicata, come lo stadio, al calciatore più famoso della Squadra d’oro, Ferenc Puskas, detto Pancho. Ogni volta che incontra un calciatore, Orbán è incontenibile, domanda, si complimenta, racconta, sorride, è energico. E’ come se, oltre a sentirsi premier, si sentisse un po’ anche allenatore, o meglio: motivatore. Così appariva anche durante l’incontro con Balász Dzsudzsák, il centrocampista della nazionale, che il premier ha accolto con una sciarpetta  da tifoso che tra mille  scritte e i colori nazionali esibiva, ai lati, l’immagine dell’Ungheria con dei confini molto più grandi di quelli che conosciamo e che corrispondono alla Grande Ungheria, che nulla ha a che vedere con la squadra di calcio, ma molto con le promesse nazionaliste del premier.

 

La Grande Ungheria è quel territorio che oltre a comprendere la nazione come è oggi, chiude nei suoi confini parti di Romania, Slovacchia, Slovenia, Austria, Croazia, Serbia e Ucraina. Tutti quei territori in cui  vivono cittadini di origine ungherese e che sarebbero stati divisi dalla madrepatria da una suddivisione dei territori che ha penalizzato l’Ungheria alla fine della Prima guerra mondiale. Su questo, come su altri veri o presunti torti storici, Orbán ha aizzato proteste e sentimenti revanscisti che oggi, con la guerra in Ucraina, fanno più male che mai. Kyiv ha chiesto “scuse ufficiali”, Orbán ha risposto: “Il calcio non è politica. Non vedete cose che non esistono. La squadra nazionale ungherese appartiene a tutti gli ungheresi, ovunque vivano!”. Sembrerebbe  innocuo, ma da anni Orbán propone politiche per avvicinare a Budapest cittadini ungheresi che vivono nella regione ucraina della Transcarpazia: è stato  spesso in dissidio con l’Ucraina, già prima della guerra, e ora che il conflitto è scoppiato, la sua ambiguità è un problema per l’Ue e anche per Kyiv. Mentre con la Russia è tutt’altro che ambiguo.  

 

L’amico della Russia. Nel 2009, l’allora premier di sinistra Ferenc Gyurcsány disse: “L’ultima volta che ho visto Putin, gli ho detto: ‘Non mi piace comprare energia da un’unica fonte’. Putin era d’accordo: ‘Al tuo posto, la penserei allo stesso modo. Ma sembra che tu non abbia alternative’. O il gas russo o niente gas”. Gyurcsány ebbe la stessa conversazione con Tony Blair, che gli disse: “Gli americani considerano le importazioni dalla Russia una rilevante questione di politica estera: per voi, è una questione di riscaldamento”. E’ ancora così: Orbán non vede la guerra in Ucraina come una catastrofe umanitaria né come una minaccia geopolitica, ma come una questione di riscaldamento. L’aumento del prezzo del carburante ha infragilito la legge che riduce i costi dei servizi, e gli ungheresi sono stati costretti a pagare il prezzo di mercato per tutto ciò che supera la media nazionale dei prezzi stabilita dall’esecutivo.  L’Ungheria ha goduto di un’esenzione dall’embargo europeo, che Orbán aveva commentato: “Chi ha un porto può avere petrolio dalle navi. Se non ce l’avessero tolto, il nostro porto, ce l’avremmo anche noi”. La rivendicazione territoriale è presente nella retorica del premier ungherese da quando è iniziata la guerra e lui si è messo di traverso in Europa e ha rafforzato il suo rapporto con Mosca. All’inizio di questa settimana il ministro degli Esteri Péter  Szijjártó era a Sochi, in Russia, a un evento intitolato “Atomexpo 2022 Nuclear Spring”. Intervistato, il ministro ha criticato le sanzioni europee e ha elogiato la cooperazione con Rosatom. Nonostante la Putinfilia, il governo di Budapest sta pagando il gas russo a un prezzo più elevato rispetto agli altri e non riceve più petrolio dall’oleodotto Druzhba (che vuol dire amicizia), che parte in Russia e rifornisce l’Europa orientale, e che ha sospeso il flusso a metà novembre. 

 

L’ultima volta che l’Ungheria ha partecipato a un Mondiale è stato nel 1986, quando già si diceva: non è più  quella di un tempo

 

Il momento della verità sullo stato di diritto. La prossima settimana la Commissione di Ursula von der Leyen deve decidere se continuare a inondare Budapest di contanti dell’Ue oppure no visto che l’Ungheria non rispetta più i princìpi fondamentali. Le armi finanziarie contro Orbán sono due. La Commissione ha raccomandato di sospendere 7,5 miliardi dei fondi di coesione perché in Ungheria mancano sufficienti garanzie sulla lotta alla corruzione e i conflitti di interessi per tutelare il bilancio comunitario. Inoltre, la Commissione non ha ancora dato il via libera al piano nazionale di ripresa e resilienza di Budapest, che vale 5,8 miliardi, perché non sono state ancora rispettate le raccomandazioni dell’Ue su indipendenza della giustizia, meccanismi di controllo dei fondi e gare di appalto. Messo alle strette da una crisi finanziaria in patria   Orbán ha fatto diverse concessioni. Il suo governo ha inviato a Bruxelles 17 misure correttive per rispondere alle preoccupazioni sollevate dalla Commissione e ha accettato di procedere con una riforma della giustizia. L’Ue è accusata di tutti i mali da Orbán, ma i suoi miliardi sono indispensabili quando l’economia è bloccata e il deficit di bilancio sta esplodendo anche a causa delle regalie del Fidesz in campagna elettorale e dei mega sussidi concessi dal governo di fronte alla crisi energetica per mantenere il sostegno della popolazione. La Commissione starà al gioco di Orbán?

 

Il ricatto contro l’Ue. Ogni volta che i 27 devono decidere all’unanimità, l’Ungheria si mette di traverso usando il suo potere di veto. Da giugno Budapest sta bloccando all’Ecofin l’adozione della direttiva che serve all’Ue per recepire l'accordo all’Ocse sulla tassazione minima delle multinazionali. In estate Orbán ha minacciato di non rinnovare le sanzioni dell’Ue contro la Russia e ha lanciato una consultazione popolare interna per legittimare un suo eventuale veto a Bruxelles. In autunno l’Ungheria ha detto di essere contraria al meccanismo finanziario che dovrebbe permettere all’Ue di versare all’Ucraina 18 miliardi di euro nel 2023 per finanziare le spese correnti. Il commissario al Bilancio, Johannes Hahn, ha reagito prima con una battuta – “L’Ungheria è autrice del bestseller ‘Come farsi degli amici’, ma sono sicuro che nella seconda edizione troveremo una soluzione” – poi accusando esplicitamente Orbán di “ricatto”. Anche l’ingresso di Finlandia e Svezia alla Nato è in ostaggio. Per completare l’allargamento manca il consenso di due paesi: Turchia e Ungheria. 

 

Il voto del Pe. Il Parlamento europeo domani voterà una risoluzione per chiedere alla Commissione di non riaprire i rubinetti finanziari. “Le misure correttive adottate dal governo ungherese non sono sufficienti per dimostrare che le violazioni dei princìpi dello stato di diritto in Ungheria non danneggiano più o non presentano più rischi gravi di danneggiare la buona gestione finanziaria del bilancio dell’Ue”, dice la bozza di risoluzione. Il Parlamento europeo chiederà di confermare il congelamento dei 7,5 miliardi di fondi della coesione grazie al meccanismo di condizionalità sullo stato di diritto.  Inoltre, i deputati chiederanno alla Commissione di “non dare valutazione positiva” al Pnrr dell’Ungheria fino a quando il governo Orbán “non si sarà conformato a tutte le raccomandazioni nel settore dello stato di diritto e non avrà attuato tutte le sentenze pertinenti della Corte di giustizia dell’Ue e della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Ma l’appello del Pe probabilmente non sarà ascoltato.

 

La Commissione bifronte darà parere negativo sulle misure correttive proposte da Budapest, ma positivo sul Pnrr

 

Cosa farà la Commissione? Con furbizia, Ursula von der Leyen si prepara all’equilibrismo. La prossima settimana, la Commissione pubblicherà la sua valutazione delle 17 misure correttive proposte da Budapest, dando un giudizio negativo, sottolineando problemi con le nomine dell’Autorità di integrità e altre riforme. Ci saranno applausi per von der Leyen che è dura contro Orbán, ma di fatto la Commissione lascerà  ai governi la responsabilità di congelare i 7,5 miliardi dei fondi della coesione. Allo stesso tempo, la Commissione darà il parere positivo sul Pnrr ungherese e la possibilità di erogare 5,8 miliardi del Recovery fund. Anche se l’Ungheria non rispetta ancora le raccomandazioni, le riforme su anticorruzione e indipendenza della giustizia saranno inserite tra le “milestone” e i “target” da cui dipende l’erogazione dei fondi. Il trucco, che è già stato usato con la Polonia, permetterebbe all’Ecofin  di dare il via libera al Pnrr di Orbán. Se non avvenisse prima della fine dell’anno, l’Ungheria perderebbe il 70 per cento dei fondi del Recovery. La Commissione e gli altri governi sperano che questo basti per convincere il premier ungherese a rinunciare ai suoi veti. Se Orbán manterrà gli impegni presi sulle 17 misure correttive e il Pnrr nei tempi previsti, tutti i fondi destinati all’Ungheria verrebbero scongelati nel primo trimestre del 2023. Ma il prezzo da pagare per l’Ue è la credibilità dei suoi meccanismi per far rispettare lo stato di diritto.

 

Gli amici di ieri. Da quando Orbán è uscito dal Partito popolare europeo, sembra irriconoscibile. La sua corte internazionale si è ridotta, l’immigrazione rimane uno dei suoi cavalli di battaglia, ma ora c’è chi fa più rumore di lui, e il premier si è limitato a dare il plauso alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni dicendole, nel bel mezzo della querelle sulla Francia: brava Giorgia per aver difeso i confini. Ma Meloni, che pure prima lo prendeva a modello, pare essersene allontanata, complice anche le posizioni di Orbán sulla guerra in Ucraina. Da centro nevralgico delle destre, pifferaio magico dei sovranisti, non trova casa in Europa, dall’America non gli arriva più il vento trumpiano in poppa e l’Amministrazione Biden gli ha anche mandato un ambasciatore che lo trolla su Twitter. Si chiama David Pressman, ha lavorato presso le   Nazioni Unite ed è un gran difensore dei  diritti umani. Inoltre Pressman è sposato con un uomo, ha due figli, e soltanto per questi elementi è tutto ciò contro cui Orbán combatte. L’ambasciatore lo sa benissimo e poco prima di un incontro con la presidente Katalin Novák, ex ministro della Famiglia con caratteristiche  orbaniane,  ha pubblicato una foto mentre lui, suo marito e i figli, sotto il sole di Budapest, si preparavano per la visita, molto sorridenti. La voce è corsa per le strade della capitale e chi conosce Orbán assicura che in realtà è parte della sua furbizia:  a lui poco interessa della famiglia tradizionale, ma sa che è un tema che entusiasma gli ungheresi, un po’ come la Grande Ungheria. 

 

Nel tentativo di recuperare un po’ di rilievo, soprattutto internazionale, il premier ungherese ha deciso di debuttare su Twitter e di assumere uno stile disimpegnato, ridanciano, giovanile. Il risultato è spesso comico, gli imbarazzi si accumulano, il premier sembra un pesce fuor d’acqua e posta foto con l’aria di uno che chiede: ma io che ci faccio qui? L’Europa avrebbe anche una risposta, tra l’altro, ma tende a non dirla. 

(ha collaborato David Carretta)