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Quanto vale una relazione transatlantica solida

Paola Peduzzi e Micol Flammini

I rapporti tra Biden e l’Europa sono buoni, anche se ci sono almeno due strategie americane che ci preoccupano. I lasciti del “trattamento Trump”  

Le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti non hanno consacrato il trumpismo di ritorno né l’onda rossa dei repubblicani, ma l’equilibrio dentro al Congresso cambierà e per il governo del presidente Joe Biden ci saranno nuovi condizionamenti. Biden è riuscito a costruire con l’Europa  quell’unità che avrebbe voluto cementare anche negli Stati Uniti: lo aveva detto che sarebbe stato più facile unire l’occidente che l’America, e così è stato. La direzione della strategia americana resta immutata ed è profondamente atlantista – su questo Biden non ha alcun retropensiero – ma c’è un nuovo assetto internazionale da definire da quando la Russia ha invaso l’Ucraina che va oltre la dichiarata e consumata collaborazione. Ci arrabbiammo molto quando l’adorato Barack Obama disse che ci sono dei “free rider”, degli scrocconi, anche tra gli alleati: i modi erano stati un po’ bruschi (era comunque una espressione riferita, in seguito Donald Trump avrebbe detto cose ben più offensive in pubblico), ma mostravano la volontà americana, ben radicata, di spingere l’Europa a una sua autonomia. E gli europei sono molto tormentati sulla loro ambizione di indipendenza e sui costi che questa indipendenza comporta, ancor più ora che c’è una guerra, c’è una crisi energetica, c’è l’inflazione. Siamo andate a vedere com’è lo stato della relazione transatlantica, fondamentale per garantire all’Ucraina il sostegno di cui ha bisogno e per il tempo che sarà necessario, e che ora rischia di ammaccarsi ancora un po’ con il ritorno della maggioranza repubblican-trumpiana.


 
La ripresa di un antico amore. L’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca nel 2021 è stato vissuto dall’Unione europea come la ripresa di una vecchia storia d’amore. Finiti i litigi transatlantici della presidenza Trump, si potevano chiudere i conflitti commerciali e riprendere una relazione stabile, anzi, si poteva perfino lanciare un progetto comune sulla difesa della democrazia, la tassazione delle multinazionali e il contenimento della Cina. I vertici bilaterali o quelli del G7 non erano più tesi, ostili, imbarazzati. Washington e Bruxelles hanno lanciato insieme un Consiglio Commercio e Tecnologia. Alcune capitali europee hanno cominciato di nuovo a sognare un Ttip, un accordo di libero scambio tra le due sponde dell’Atlantico per costruire la Nato del commercio. Ventuno mesi dopo il bilancio della relazione transatlantica rimane positivo, ma l’amore si è affievolito. Alcuni vecchi litigi, già presenti prima dell’Amministrazione Trump, sono riemersi. Perché l’America di Biden tratta l’Ue come un avversario commerciale invece che come un alleato geopolitico? Perché gli Stati Uniti fanno un accordo con l’Australia alle spalle della Francia sui sottomarini nucleari? Perché le compagnie americane vendono gas all’Europa a prezzi stellari, malgrado l’allineamento dell’Ue alla politica americana sulla guerra della Russia contro l’Ucraina? Ogni tre mesi scoppia una piccola crisi, con minacce di rotture diplomatiche, ricorsi davanti all’Organizzazione mondiale del commercio, e tantissime, logoranti lamentele sul fatto che gli americani facciano enormi profitti sulle spalle degli europei.

 

L’Ue è in stato di allerta per l’Inflation Reduction Act di Washington. Le imprese europee verrebbero penalizzate  

 

Noi e l’America, in tre aggettivi. Ci siamo fatte accompagnare dal politologo Ian Lesser, vicepresidente e direttore esecutivo dell’ufficio di Bruxelles del German Marshall Fund che ci ha detto: “Queste elezioni di metà mandato avranno implicazioni più in materia di politica interna che estera e alcuni progetti, come quelli che riguardano l’alleanza atlantica e il loro finanziamento non sono in discussione”. Per Lesser, Joe Biden è uno dei presidenti più attenti al rapporto tra Stati Uniti e Unione europea, e non era scontato. Il problema tra le due sponde non era soltanto frutto del trattamento trumpiano, era più profondo. E’ vero che i democratici hanno un diverso equilibrio al Congresso e questo potrebbe cambiare la natura del sostegno all’Ucraina. Secondo Lesser, “le preoccupazioni di Kyiv vertono di più sul sostegno economico e non su quello militare, perché anche i repubblicani capiscono che il campo militare ha a che fare con la competizione strategica con la Russia e non possono indietreggiare”. Dal punto di vista europeo questo vuol dire che potrebbe svanire il principio del burden sharing, della condivisione degli oneri, perché uno degli argomenti che i repubblicani potrebbero utilizzare è proprio: “C’è già l’Europa che sta facendo abbastanza”. Bruxelles ha fatto molto per l’Ucraina, ma soltanto una minima parte di quel che invece ha fatto Washington. “La guerra in Ucraina però ha mostrato che la Nato è una questione concreta, non ha a che fare con la filosofia o con qualche ambizione di amicizia, ma con la capacità e la sicurezza”, ci ha detto Lesser. Per chiunque in questo momento è meno facile sminuire l’importanza dell’Alleanza atlantica. A questa situazione va aggiunta la Cina, che il politologo definisce “una variabile indipendente”. La competizione tra l’America e Pechino cresce lentamente e investe campi come l’economia e la sicurezza. “E’ una sfida che si muove lentamente, ma se la Cina dovesse attaccare Taiwan, le priorità strategiche dell’America cambieranno e all’Ue verrà chiesto di occuparsi delle proprie questioni relative alla sicurezza”. Nella relazione aggiustata tra Europa e Stati Uniti c’è un punto di rottura, o meglio un freno: la Germania, che se ha superato le sue esitazioni riguardo a un’opposizione alla Russia non è disposta a rimettere in discussione il suo rapporto con la Cina. Lesser spiega che la volontà ci sarebbe anche a Berlino, ma la politica tedesca ha un problema: “Non riesce a pensare in termini di hard power e strategie, vorrebbe anche fare di più, ma deve attrezzarsi”. Abbiamo chiesto al politologo come definirebbe il rapporto tra Stati Uniti e Unione europea e lui ci ha risposto con tre aggettivi. Due fanno ben sperare, il terzo ispira fosca cautela: “Le relazioni transatlantiche sono positive, collaborative e incerte”, ci ha detto Lesser, “guardando al 2024”. Qualche tensione, però si sente già.  

 

La paura dell’America first. Da qualche settimana Bruxelles è in stato d’allerta per l’Inflation Reduction Act di Biden. Il provvedimento dell’Amministrazione americana da 437 miliardi di dollari destinato a ridurre l’inflazione e investire nell’energia pulita ha risvegliato l’incubo europeo dell’America first di Trump. Gli aiuti concessi dall’Amministrazione Biden sono riservati ai beni e alle tecnologie prodotti negli Stati Uniti. Su veicoli elettrici, batterie, pale eoliche, pannelli solari, infrastrutture per l’idrogeno e tutta la componentistica associata si applica il principio dell’America first. Le imprese europee, in particolare nel settore automobilistico, verrebbero penalizzate, salvo decidere di spostare parte della loro produzione negli Stati Uniti. “Vediamo che imprese e aziende vengono attratte dall’Europa negli Stati Uniti a causa dei forti sussidi pagati lì”, ha detto il 19 ottobre il ministro tedesco dell’Economia, Robert Habeck: “Non possiamo avere una guerra commerciale in tempi come questi”. Lo stesso giorno, il ministro francese delle Finanze, Bruno Le Maire, ha chiesto alla Commissione “una risposta adeguata”. Tradotto: minacciare gli Stati Uniti di portarli davanti all’Organizzazione mondiale del commercio, cioè lanciarsi in una guerra di dazi e contro-dazi.

 

Il presidente francese Macron potrebbe presto rilanciare una sua vecchia battaglia: la digital tax contro i colossi americani

 

La via dolce di von der Leyen. La Commissione ha scelto una strada meno bellicosa. Ursula von der Leyen tiene moltissimo al suo rapporto personale con Biden, non perde occasione per metterlo in mostra con dichiarazioni o conferenze stampa congiunte e non vuole correre il rischio di perdere la sua vetrina transatlantica. Il 2 novembre la Commissione ha annunciato la creazione della “task force” sull’Inflation Reduction Act, guidata dal capogabinetto di von der Leyen, Björn Seibert, e il vice consigliere alla Sicurezza nazionale, Mike Pyle. L’obiettivo dell’Ue è di ottenere le stesse esenzioni di Canada e Messico. “Discutere in una task force è meglio che lanciarsi in una guerra commerciale”, ci ha spiegato una fonte della Commissione. Ma i paesi tradizionalmente protezionisti hanno colto l’occasione per chiedere di passare alla politica “Europe first”. “Abbiamo bisogno di un Buy European Act come gli americani”, ha detto il presidente francese Emmanuel Macron in un’intervista a France 2: “Dobbiamo riservare (gli aiuti) ai nostri produttori europei. Ci sono la Cina che protegge la sua industria, gli Stati Uniti che proteggono la loro industria e l’Europa che è una casa aperta”.

 

L’insofferenza francese e la digital tax. Iscrivendosi nella tradizione gollista, Macron ha sempre voglia di fare un po’ a botte con i cugini americani. Dopo l’accordo Aukus sui sottomarini dello scorso anno, gestito da americani, inglesi e australiani ai danni di una commessa di Parigi, il presidente francese ha costretto l’Ue a reagire contro gli Stati Uniti con il rinvio di una riunione del Consiglio commercio e tecnologia. Più di recente, Macron si è messo a contestare il fatto che “i prezzi dell’energia americani (...) sono molto più bassi dei nostri”. L’Europa paga “tre o quattro volte” di più il gas liquefatto americano rispetto alle imprese americane. Non è così che ci si comporta quando si lotta insieme per sostenere l’Ucraina vittima dell’aggressione della Russia. Per il presidente francese, “non possono esserci alleati a due velocità o libertà a due velocità”. Macron potrebbe presto rilanciare una sua vecchia battaglia: la digital tax contro i colossi americani. L’accordo all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) sulla tassazione minima delle multinazionali è in stallo. Dentro l’Ue, l’Ungheria ha messo il veto alla direttiva per dare attuazione all’aliquota minima del 15 per cento. Nel Congresso ancora in mano ai democratici, un via libera appariva già improbabile. Ora che è passato nelle mani dei repubblicani, lo storico accordo sulla tassazione minima delle multinazionali potrebbe essere sepolto. In un’intervista al Financial times, Zbynek Stanjura, il ministro delle Finanze della Repubblica ceca, che ha la presidenza di turno dell’Ecofin, ha detto che “il problema è da parte americana” e, se l’accordo all’Ocse non avrà il via libera al Congresso, “l’Europa tornerà a parlare di digital tax”.

 

Nel 1977, Joe Biden e sua moglie Jill scelsero come destinazione della loro luna di miele Budapest. Fu il primo viaggio dell’allora senatore oltre la cortina di ferro, passò un po’ di tempo sul lago Balaton – anni dopo disse che l’unico posto al mondo in cui vale la pena mangiare il pesce è questo lago, soprannominato “il mare magiaro” – e poi nella capitale ungherese dove incontrò i politici comunisti ma anche giornalisti e dissidenti. Ha detto che in quel viaggio capì alla perfezione che cosa c’era in gioco durante la Guerra fredda. Oggi Biden non ha più parole dolci nei confronti dell’Ungheria ma sa che allora come adesso in gioco c’è la voglia di libertà delle persone: è nell’interesse dell’America un’Europa salda, e vigile.   

 

(Ha collaborato David Carretta)