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La Polonia e l'Ucraina, da nemiche a sorelle d'Europa

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Il rivoluzionario abbraccio tra Duda e Zelensky mostra che la solidarietà può vincere su un disprezzo storico e profondo. Un altro calcolo sbagliato di Putin

L’abbraccio tra il presidente polacco Andrzej Duda e Volodymyr Zelensky è più forte delle minacce, dell’odio, delle bombe di Vladimir Putin. E’ l’abbraccio che fa male a Mosca perché mostra la capacità dei popoli e dei leader di andare oltre la storia, il dolore e la violenza del passato – una capacità che Putin non ha, non vuole, rifiuta e quindi teme. Duda è stato il primo leader europeo a parlare di persona al Parlamento ucraino, e prima di cominciare il suo discorso di fratellanza e solidarietà ha stretto il presidente ucraino, in uno dei gesti più rivoluzionari mai visti in questa guerra.

 

Duda portava la solidarietà dell’occidente, ha ripetuto che se cade l’Ucraina cadiamo tutti, ha ribadito che è Kyiv a dover decidere del proprio futuro e della propria sovranità. Ma Duda parlava anche e soprattutto a nome dei polacchi,  in passato nemici e ora punto di approdo e di accoglienza per il popolo ucraino. I due presidenti hanno anche concluso un accordo storico sul controllo doganale congiunto per accelerare le procedure di frontiera.      
Abbiamo ripercorso la storia di questa inimicizia violenta per capire quanto potente può essere questo abbraccio di pace in tempo di guerra. 


Storia di un’inimicizia. Il confine che oggi sembra aperto, fraterno, rispettoso, fino a pochi anni fa è stato profondo quanto una ferita. Polacchi e ucraini sono popoli che per la storia hanno spesso combattuto, che si sono buttati nel futuro dopo la Guerra fredda con entusiasmo e con voglia di ricostruzione – la vediamo anche oggi la voglia degli ucraini di rimettere in piedi tutto – ma da una parte all’altra della frontiere rimanevano le accuse, i rancori, le contese. Iniziamo da una data: il 25 luglio del 1934, l’Organizzazione dei nazionalisti ucraini uccise Ivan Babii, ex ufficiale dell’esercito e sostenitore della pacifica convivenza tra polacchi e ucraini, ma per i nazionalisti era un collaboratore della polizia polacca.  Babii era anche direttore di uno dei più antichi Ginnasi di Leopoli, che oggi esiste ancora e la strada davanti è intitolata a Stepan Bandera, capo dell’Organizzazione dei nazionalisti colpevole dell’omicidio. Nei giorni della morte di Babii, Bandera era in prigione in Polonia, ma fu liberato con lo scoppio della guerra mondiale. Per le vie della bella Leopoli si trovano tracce di questa relazione tormentata, di un’inimicizia storica che oggi si è trasformata in una forte fratellanza. Gli episodi difficili non finirono e qualche anno dopo, tra il 1943 e il 1944, l’Esercito ucraino insorto (Upa) iniziò una guerra clandestina non soltanto contro i tedeschi ma anche contro i polacchi e iniziò un’operazione di pulizia etnica nelle regioni di Volinia e Galizia orientale, dove sterminò 100 mila cittadini polacchi. Questo episodio viene riconosciuto dai polacchi e da altri studiosi occidentali come genocidio e dopo la caduta dell’Unione sovietica, i polacchi si aspettavano un’ammissione da parte degli ucraini, che non c’è stata a livello istituzionale. La storia e i suoi dolori hanno continuato ad acutizzarsi, da entrambe le parti c’era il desiderio che l’altro cedesse, che dicesse: la verità è la tua. A colpi di leggi e decreti i due popoli hanno ragionato sulla storia, si sono sfidati, costretti a parlare e hanno litigato ferocemente. I dolori si sono fatti più forti e più deboli a seconda del momento, a seconda dei governi e delle rivoluzioni. Si sono odiati molto, si sono fatti paura e alla fine si sono soccorsi.
 

Già nel 2014 Mosca aveva incitato i polacchi a ricordarsi del male fatto loro dagli ucraini. Fallì allora come oggi


Il ritorno dei fantasmi. Nel 2014, quando la Russia ha occupato la Crimea ed è iniziata la guerra nel Donbas, la Polonia è stata tra le nazioni più presenti, accoglieva gli ucraini che fuggivano, andava dai partner europei a dire: non distogliete gli occhi da Kyiv, Putin è una minaccia. L’Ue ancora incredula muoveva i suoi passi timidi in Ucraina, ma sembrava non credere agli allarmi polacchi. Varsavia nel frattempo sembrava disinteressata a Bandera, alle statue e alle vie di Leopoli e se Mosca urlava: guardate, nella piazza a protestare contro Yanukovich ci sono i nazisti, Varsavia non ascoltava. Il Cremlino rincarava: altro che europeisti, state appoggiando i banderivtsi – il nome con cui si indicano i sostenitori di Bandera – i polacchi a questo nome non reagivano, faceva male, ma c’era un altro male da curare: c’era la Russia che occupava territori ucraini e faceva più paura di Bandera e delle stragi del passato. Dopo Euromaidan, dopo l’elezione di Petro Poroshenko, la Polonia pensava che si potesse di nuovo parlare di storia, di dolori di ieri, ed è rimasta delusa. A volte si è sentita umiliata, soprattutto nel 2015 quando l’Ucraina ha adottato una serie di leggi sulla decomunistizzazione, che hanno introdotto la possibilità di punire coloro che negavano la natura eroica dei combattenti per l’indipendenza ucraini, compreso l’Upa, l’esercito che ha massacrato 100 mila polacchi. C’è stato il dolore, c’è stata la rabbia, c’è stata l’inimicizia. Ma quando Putin ha dichiarato l’inizio dell’operazione speciale per denazificare l’Ucraina, a Varsavia è venuta in mente soltanto una cosa: ma quali nazisti, Kyiv va aiutata, sono i nostri fratelli, sono i nostri combattenti. Se cade l’Ucraina, cadiamo tutti insieme. Ha messo dietro alle spalle le ombre del passato per cercare l’unità che serve all’Ue in questa guerra, per battere il nemico numero uno, il nemico comune: Vladimir Putin.
 


I rifugiati. Quel confine ermetico che sembrava un fossato di rivendicazioni storiche è oggi aperto e pieno di solidarietà. Olena Zelenska, moglie del presidente ucraino, ha girato un video per ringraziare la Polonia per aver accolto tanti ucraini: le stime parlano di oltre tre milioni di persone. Ha detto che l’Ucraina è stata molto sfortunata con il suo vicino russo, che parlava di fratellanza tra i popoli e poi ha lanciato missili. Ma la fortuna l’ha trovata a ovest, in Polonia, la più amica tra le nazioni europee. Contrariamente alla sua politica che finora aveva avversato l’immigrazione, Varsavia ha aperto le sue frontiere agli ucraini, cercando di dotarli dei documenti necessari a un’integrazione rapida. In tre mesi la popolazione polacca è aumentata dell’8 per cento su tutto il territorio e del 50 per cento in alcune città. Le stazioni di Varsavia e di Cracovia sono immerse in una frenesia mai vista. Ai rifugiati ucraini, la Polonia ha conferito uno status speciale che consente loro di ottenere il Pesel, il numero di identificazione personale, il più rapidamente possibile per  cercare lavoro e andare a scuola. Questa situazione ha mutato il volto della società polacca che da anni vive una crisi demografica molto profonda e ora che una parte di Ucraina si è trasferita in Polonia, i dati mostrano il ritratto di un paese ringiovanito: come se Varsavia e Kyiv avessero unito le forze. Secondo le stime, l’ondata di rifugiati ha ringiovanito l’età media della Polonia di quasi 5 mesi. Un esempio: prima della guerra, la Polonia aveva 60 mila maschi in più nella fascia tra i 25 e i 29 anni rispetto alla fascia 10-14. Ora la situazione è invertita: ci sono 10 mila ragazzi in più di età compresa tra i 10 e i 14 rispetto agli uomini tra i 25 e i 29. Olena Zelenska nel suo video aveva detto che tutti coloro che sono andati via torneranno, perché nessun posto è bello e caro come casa propria. Alla Polonia in questo momento conviene il contrario  e con ogni probabilità farà di tutto per convincere i nuovi cittadini a rimanere e magari anche  attrarre gli uomini che sono rimasti a combattere a raggiungere le famiglie, una volta finita la guerra.
 

Varsavia vuole che Kyiv entri presto e a pieno titolo nell’Ue. Bruxelles ha deciso di dare ai polacchi riottosi un’altra chance

 

Promessa europea. Varsavia non ha dubbi, il posto di Kyiv è all’interno dell’Unione europea. In molti invece, a cominciare dalla Francia, i dubbi ce l’hanno eccome e dicono che non è pensabile una procedura accelerata per permettere all’Ucraina di diventare paese membro. Le nazioni dell’est europeo capiscono di più il senso di urgenza rispetto agli altri, sentono la paura di un conflitto che si allarga, sanno che non c’è modo migliore di difendersi che aiutare gli ucraini, e deve essere un aiuto eccezionale. La Polonia ne è convinta, con lei sono convinti anche i Paesi baltici, e ogni volta che ha la percezione che gli altri europei si stiano distraendo, alza la voce, punta il dito e ripete: ora è l’Ucraina, poi saremo noi. Fare di tutto per Kyiv vuol dire fare di tutto per l’Ue per il futuro, è questo il mantra dei polacchi, che quindi non hanno alcun dubbio: l’Ucraina deve entrare nell’Ue e non sono ammesse lungaggini. Il presidente Duda ha detto che non troverà pace finché l’Ucraina non diventerà un paese membro ed è suonato strano detto dall’esponente di un partito che negli ultimi anni non ha fatto altro che litigare con Bruxelles. Ma come hanno messo alle spalle la storia tormentata con Kyiv, i polacchi ora hanno messo alle spalle parte delle dispute con l’Ue e hanno rispolverato quello che per loro è stato il vero significato del diventare europei: l’Europa è una garanzia, una protezione, l’appartenenza a un mondo di pace come non ce ne sono altri. E questo stato va condiviso, il mondo di pace va allargato anche a Kyiv. C’è chi dice: guardateli i polacchi, dopo aver calpestato lo stato di diritto, fomentato l’idea di una exit in stile londinese o, se possibile, ancor più dispettosa, se ne ricordano ora di essere europei? Sì, perché la guerra ha in parte rammentato anche all’euroscettico partito PiS che non c’è alleanza migliore in cui sedersi di quella europea, tutto il resto viene dopo. Un professore di diritto internazionale una volta ha usato una metafora per spiegarci che la democrazia non si capisce dall’oggi al domani, che alcuni paesi, come i paesi dell’est che hanno vissuto sotto la dittatura fino al 1989, hanno bisogno di interiorizzarla, la democrazia, di elaborarla. E’ come un panettone, ci ha detto, viene bene se ha il tempo, molto tempo per lievitare. Obietterete: quindi se facciamo entrare Kyiv avremo un domani gli stessi problemi che affrontiamo con Polonia e Ungheria, dopotutto, lo stesso Zelensky ha detto quella frase che ha fatto venire i brividi a Bruxelles: noi ucraini abbiamo la stessa idea d’Europa dei polacchi. Fare in modo che con l’Ucraina non ci siano gli stessi problemi affrontati con la Polonia spetta anche agli altri europei, gli errori non vanno ripetuti. Ma a questo bisogna aggiungere una precisazione, Zelensky non intendeva dire che una volta dentro all’Ue vuole mettersi a litigare con tutti, intendeva dire che per lui l’Europa è democrazia, è protezione, è pace, come lo era per i polacchi quando iniziarono il cammino europeo.
 

A proposito di schermaglie con l’Ue. Nei prossimi giorni la Commissione di Ursula von der Leyen dovrebbe dare il via libera al piano nazionale di ripresa e resilienza della Polonia, sbloccando gli oltre 36 miliardi del Recovery fund destinati a Varsavia (23,9 miliardi di sovvenzioni e 12,5 miliardi di prestiti). Il pacchetto di aiuti post pandemia era in stallo per il conflitto sullo stato di diritto. Il governo di Mateusz Morawiecki non voleva seguire le raccomandazioni della Commissione di introdurre riforme per garantire l’indipendenza della giustizia. Peggio. Ha rifiutato anche di conformarsi a una sentenza della Corte di giustizia dell’Ue sulla Camera disciplinare dei giudici. Ma il ruolo della Polonia nella guerra in Ucraina è stato foriero di un riavvicinamento tra Bruxelles e Varsavia.  La presidente della Commissione ha così deciso di allentare le condizioni che aveva posto lo scorso anno per dare il via libera al Recovery polacco (in particolare la richiesta di reinstallare i giudici licenziati dalla Camera disciplinare). In cambio il partito Legge e Giustizia, il PiS, ha accettato di modificare il regime disciplinare dei giudici (l’approvazione è in corso in Parlamento).    Il governo di Morawiecki potrà rivendicare un successo nel suo braccio di ferro con Bruxelles,  ci sono seri dubbi sulla reale portata della riforma per l’indipendenza della giustizia. La Commissione potrà rivendicare la possibilità di bloccare gli esborsi del Recovery fund se Varsavia non manterrà gli impegni.  In realtà, c’è una ragione più venale che ha spinto la Commissione a un “gran bargain” con Varsavia. Dall’inizio dell’anno la Polonia ha messo in pratica una politica di ostruzionismo a Bruxelles su tutti i dossier considerati strategici per l’Ue, in cui può esercitare il suo diritto di veto. Il caso più eclatante è quello della direttiva sulla tassazione minima delle multinazionali, che dovrebbe permettere di recepire l’accordo all’Ocse sull’aliquota al 15 per cento. Da marzo c’è consenso tra i 26 stati membri sul testo sottoposto all’Ecofin. Ma, con una scusa tecnica, la Polonia continua a opporsi. Nei calcoli della Commissione c’è anche la volontà di accentuare le divisioni interne alla coppia Polonia-Ungheria, nel momento in cui Varsavia e Budapest spingono in direzioni diverse su Russia e Ucraina. Ma von der Leyen corre un grosso rischio a sacrificare il Recovery per il quieto vivere con la Polonia sull’Ucraina o la tassazione delle multinazionali. Non solo ci sono dubbi sulla riforma della giustizia: Varsavia non ha ancora fatto marcia indietro dopo la sentenza della sua Corte costituzionale che contesta la supremazia del diritto europeo. Ci sono altri dossier – compresi alcuni legati al Green deal – in cui la Polonia può esercitare il diritto di veto. Alla fine, cedere ai ricatti significa incentivare futuri ricatti. E’ questo quello che intendiamo con: non ripetere gli errori del passato.
 

L’amicizia tra polacchi e ucraini non piace affatto alla Russia, che non si capacita di come sia possibile che Varsavia abbia deciso di non cedere alle sirene su Bandera, di non ascoltare la propaganda di Mosca che ora dice: se la Polonia lascia che la polizia polacca agisca in Ucraina tramite il nuovo accordo sulle dogane, allora vuole essere attaccata. Varsavia, che pure ha molta paura della Russia, non si tira indietro, stringe accordi, fa viaggi fino a Kyiv, abbraccia Zelensky, che ha conferito alla città di Rzeszów, a sud est della Polonia, un riconoscimento ufficiale per l’aiuto dato ai rifugiati. Rzeszów è anche la città della Nato, uno dei nodi utilizzati per far arrivare gli aiuti militari agli ucraini, ma il centro cittadino in questi mesi è pieno di bandiere ucraine che ti accolgono alla stazione e ti seguono per le strade. La lingua polacca e quella ucraina riempiono le conversazioni, a volte si fondono e sembrano creare un’unica lingua, una lingua sorella, un nuovo modo di intendersi ai confini dell’Europa. 

(ha collaborato David Carretta)