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l'editoriale del direttore

Israele, l'Ucraina e la paura simmetrica di ragionare sulla vittoria

Claudio Cerasa

Combattere le due guerre significa difendere non i confini di due stati ma i confini delle nostre democrazie, le radici del nostro benessere, la fonte della nostra libertà. L'occidente deve superare il tabù di dire: “Dobbiamo vincere”

Fra i tanti elementi che hanno in comune la guerra combattuta dall’Ucraina contro il terrorismo modello Putin e la guerra combattuta da Israele contro il terrorismo modello Hamas ce n’è uno importante che coincide con una doppia domanda che riguarda entrambi i conflitti. Primo: Israele deve vincere la sua guerra, oppure no? Secondo: l’Ucraina deve vincere la sua guerra, oppure no? Una volta messa a fuoco questa domanda si potrà ragionare su tutte le derivate, perfettamente legittime: a che costo, a che prezzo, con quali sacrifici, fino a quando, con l’aiuto di chi, e così via. Ma se non si ha il coraggio di rispondere a questa domanda si continuerà a osservare il doppio conflitto senza concentrarsi sull’essenza profonda della sfida di fronte alla quale si trovano l’Ucraina da un lato e Israele dall’altro. E per rispondere a questa domanda, i tabù da affrontare riguardano la capacità di ciascuno di noi di considerare ancora oggi, e nonostante tutto, le due guerre combattute dall’Ucraina e da Israele come delle guerre combattute per difendere non i confini di due stati ma i confini delle nostre democrazie, le radici del nostro benessere, la fonte della nostra libertà. Lo schema è sempre quello. Se si odia l’America, se si odia l’occidente, se si odia la società aperta, se non si considera la minaccia veicolata dai regimi illiberali come la grande sfida dei nostri tempi non si capirà fino in fondo cosa c’è in ballo nelle due guerre e non si avrà di conseguenza la forza di rispondere in modo positivo alla domanda da cui siamo partiti: bisogna fare di tutto o no per aiutare Israele e l’Ucraina a vincere le loro guerre?

La risposta a questa domanda, di solito, si articola lungo due orizzonti. Il primo orizzonte è militare, il secondo è politico. L’orizzonte militare ci dice che fare di tutto per aiutare l’Ucraina a vincere la guerra contro la Russia significa non solo liberare i cittadini che vivono sotto il dominio russo, non solo fermare l’aggressione di Putin ma anche difendere l’ordine globale, la nostra democrazia, la nostra idea di libertà, da chi la vuole distruggere, annientare, annichilire.

Ci dice questo e ci dice anche che, allo stesso modo, fare di tutto per aiutare Israele a vincere la guerra contro Hamas significa rendersi conto che interesse della comunità internazionale dovrebbe essere quello di dare a Israele tutto l’aiuto possibile per far sì che la campagna dell’esercito israeliano contro Hamas possa finire il più presto possibile (per esempio, facendo pressioni sull’Egitto per evitare che i civili che vogliono scappare da Rafah vengano bloccati ai confini: chiudere i confini e tenere i rifugiati rinchiusi in una zona di guerra, ha scritto due giorni fa con saggezza il Wall Street Journal, diventa una posizione liberale solo quando può danneggiare Israele, e “meno civili nella zona di guerra significano meno vittime, e con l’aiuto dell’Egitto migliaia di vite civili avrebbero potuto essere salvate, mentre i combattenti di Hamas avrebbero potuto essere eliminati più facilmente”).

Il secondo orizzonte cruciale per provare a rispondere a questa domanda – le democrazie sotto attacco dai regimi illiberali devono essere aiutate a vincere oppure no? – lo si può provare a mettere a fuoco utilizzando alcuni spunti di riflessione suggeriti ieri sull’Atlantic da Anne Applebaum. Applebaum, guardandosi in giro per il mondo, suggerisce di non sottovalutare quanto profonda sia “l’infrastruttura della propaganda antidemocratica che assume molte forme, alcune palesi e altre nascoste, alcune rivolte al pubblico e altre rivolte alle élite”, denuncia un’alleanza più forte che mai tra le grandi autocrazie mondiali per “distruggere quella che chiamano egemonia americana” e suggerisce di non chiudere gli occhi di fronte a chi si muove all’interno delle democrazie mature come un cavallo di Troia, pronto ad aiutare le autocrazie a  screditare dall’interno le democrazie liberali e i valori non negoziabili delle società aperte.

La storia di Israele e dell’Ucraina, ha scritto Niall Ferguson qualche tempo fa su Bloomberg, è la storia di due democrazie, ciascuna sotto attacco da parte di un nemico giurato della civiltà occidentale. Una è vasta, l’altra è minuscola. Una ha solo 33 anni, l’altra esiste da tre quarti di secolo. Una è relativamente povera, l’altra è piuttosto ricca. Entrambe combattono contro nemici temibili, terribili, per la civiltà occidentale. Uno contro l’imperialismo russo, l’altro contro l’islamismo sostenuto dall’Iran. Dovremmo volere che vincano entrambi, non solo quello con le maggiori probabilità di vittoria. Le derivate sono perfettamente legittime, dunque, e in alcuni casi persino doverose. Ma quando si guarda alla battaglia combattuta dall’Ucraina e Israele contro il terrorismo globale la risposta a cui occorre rispondere, prima di pensare a tutto il resto, è semplice ed è quella che si pone anche Ferguson: siamo consapevoli di che cosa significherebbe non fare tutto il necessario per aiutare i paesi aggrediti a difendere i confini non negoziabili della nostra democrazia? 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.