(foto EPA)

medio oriente

La guerra di Teheran esce dall'ombra: gli iraniani sono i primi a condannarla

Cecilia Sala

Il tabù di uno scontro diretto tra Israele e ayatollah va in pezzi. Allo stadio e in fabbrica gli  iraniani dicono: non siamo chi ci governa

L’Iran manda in mille pezzi il tabù che aveva rispettato per decenni: mai trovarsi occhi negli occhi con Israele, evitare lo scontro frontale con un nemico temibile. Piuttosto combattere nell’ombra e soltanto per interposte milizie agguerrite e molto brave a destabilizzare. In quarantacinque anni di storia la Repubblica islamica aveva mantenuto fede a questa regola:  le operazioni di guerra convenzionale non fanno parte del nostro stile.  E a maggior ragione il fatto che oggi gli ayatollah siano meno saldi al loro posto rispetto al passato aveva rafforzato negli analisti l’idea che un attacco diretto contro Israele – per rispondere al bombardamento che il primo aprile ha polverizzato il consolato iraniano a Damasco – fosse ancora meno probabile del solito. Invece i regimi deboli sono capaci di colpi a sorpresa. I civili iraniani la sera di sabato erano increduli: viziati da decenni di minacce delle autorità contro “l’entità sionista” o “il piccolo satana” a cui non erano mai seguiti missili balistici contro il deserto del Negev o Tel Aviv, a Teheran sono stati colti alla sprovvista e si sono riversati in strada a fare scorte di benzina per sicurezza. Tra loro ci sono i civili che pochi giorni fa, allo stadio, hanno fatto molto rumore mentre le autorità avevano imposto un minuto di silenzio in memoria di Mohammed Reza Zahedi. 

Un minuto di silenzio  (che non c’è stato) per onorare il generale pasdaran morto sotto le macerie del consolato in Siria, dedicato a un uomo del  braccio militare della Repubblica islamica che per  molti iraniani è sinonimo di violenza e repressione contro di loro, innanzitutto, prima che contro gli stranieri. Sabato sera, dopo la partenza del primo sciame di droni diretto verso Israele, il Sindacato indipendente dei lavoratori (soprattutto operai) iraniani ha diramato un comunicato che condannava l’attacco: “Sparando droni e missili contro Israele, la Repubblica islamica si avventura in una guerra che danneggia una nazione di novanta milioni di abitanti: il regime sta compiendo la sua ultima missione per distruggere l’Iran!”. E’ lo stesso movimento di lavoratori che alla fine del 2022 aveva scioperato per settimane in parallelo alla protesta Jin, jiyan, azadî – Donna, vita, libertà.  Dopo il pogrom di Hamas, le autorità avevano provato a costringere i tifosi del Persepolis a sventolare bandiere palestinesi dalle tribune: i tifosi iraniani si erano rifiutati e avevano risposto in modo  volgare e irripetibile. Dopo il 7 ottobre, i dipendenti del comune di Teheran avevano dipinto – com’è prassi – la bandiera israeliana e quella americana sull’asfalto delle piazze del centro di modo che tutti le potessero calpestare, ma gli iraniani avevano camminato rasente al muro e un gruppo di universitari aveva fischiato e insultato un uomo che invece passava sulla stella di Davide con i suoi scarponi. Gli iraniani hanno già detto e  continuano a ripetere: le guerra – nascosta o palese – della Repubblica islamica non è la nostra guerra, non fate confusione tra le autorità, di cui la maggioranza di noi è vittima e non complice, e il popolo.

 

L’attacco cominciato la sera di sabato con droni, missili da crociera e missili balistici ha fatto uscire dall’oscurità quella che per anni è stata  la “guerra ombra” più famosa, fatta di attacchi contro lo Stato ebraico ad opera delle milizie finanziate da Teheran e di attacchi israeliani che colpivano militari iraniani all’estero oppure di operazioni d’intelligence sul territorio della Repubblica islamica che non venivano rivendicate dal Mossad. “La pazienza strategica” della Guida suprema Ali Khamenei, la dottrina iraniana secondo cui la vera dimostrazione di forza è “non rispondere alle provocazioni” e “non cadere nelle trappole” tese dai nemici, è finita con l’attacco al consolato di Damasco.

 

Gli ayatollah ora dicono, per bocca  del comandante in capo dei Guardiani della rivoluzione, Hossein Salami, che tutto è cambiato: “Abbiamo deciso di creare una nuova equazione. Questa nuova equazione prevede  che, da ora in poi, se (Israele) attacca gli iraniani  o gli interessi iraniani, ovunque lo faccia, la vendetta arriverà dall’Iran”. Ma, nei fatti, gli iraniani confidano che, poiché  la loro reazione era stata molto annunciata,  le discussioni con gli americani nelle ultima due settimane sono state fittissime, la Cia ha previsto l’attacco con precisione e Israele (con i suoi alleati) ha intercettato il 99 per centro di quello che Teheran gli ha tirato addosso, la reazione di Tsahal sarà piccola e chirurgica oppure una risposta militare non ci sarà proprio – come Joe Biden ha chiesto a Benjamin Netanyahu.     La Repubblica islamica non rinuncia alle minacce e non ascolta i suoi stadi, le sue fabbriche, le sue università; ma non poteva e non si può permettere oggi una guerra aperta con Israele e potenzialmente con gli Stati Uniti.

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