L'analisi

La risposta di Israele contro Teheran è inevitabile, ma ci sono due strade

Micol Flammini

Israele fa la stabilità del medio oriente contro l’Iran, mina vagante. L’alleanza nei cieli con americani, inglesi,  sauditi e giordani

Roma. Non era mai accaduto che l’Iran attaccasse il territorio israeliano. Era già avvenuto più volte che invece Israele colpisse il territorio iraniano con azioni mirate e circoscritte per indebolire la catena di comando della Repubblica islamica o per rallentare il piano di Teheran per dotarsi di armi nucleari. Il primo aprile Tsahal ha bombardato quello che l’Iran ha definito un suo consolato a Damasco, ma che funzionava come quartier generale dei pasdaran per riunirsi e progettare azioni contro Israele. Infatti al suo interno c’era Mohammad Reza Zahedi, il comandante iraniano che lavorava per armare e coordinare i gruppi militari che per conto dell’Iran attaccano Israele dal Libano e dalla Siria. Quando viene eliminato un uomo così in alto nella catena di comando, non è facile che i progetti si ricompongano, ne esce sempre un’immagine di debolezza. Teheran ha deciso di reagire e fare alla luce della notte quello che da anni fa nelle tenebre dei suoi gruppi armati: ha attaccato Israele. L’aggressione è stata pesante, ma una messa in scena, una fiera della vanità dell’arsenale iraniano, a cui Israele era preparato per rispondere, e soprattutto non era solo. Nella notte tra sabato e domenica, mentre i droni iraniani ronzavano verso lo stato ebraico e i missili si preparavano per essere lanciati, gli Stati Uniti hanno fatto quello che avevano promesso, si sono messi al fianco di Israele e hanno aiutato a respingere l’attacco.

 

Lo stesso hanno fatto i britannici. Tutto attorno, la Giordania ha chiuso lo spazio aereo ai droni dell’Iran e l’Arabia saudita ha dato il suo sostegno alla difesa di Israele. Nei cieli del medio oriente si è disegnata la storia futura della regione, si è stracciato il confine dell’inammissibilità. Israele ha sempre detto di essere in guerra contro l’Iran: Hezbollah che attacca dal Libano è una creatura di Teheran, come gli houthi che assaltano le navi nel Mar Rosso, come le milizie in Siria e in Iraq, come i terroristi di Hamas e del Jihad islamico che hanno ricevuto armi e denaro per attaccare il 7 ottobre. Gerusalemme ha sempre visto ogni fronte come parte di una guerra più grande, del progetto lento di Teheran di portare Israele allo sfinimento delle sue risorse e delle sue forze. L’intervento di una coalizione vasta a difesa di Israele da parte anche di paesi che hanno condannato l’intervento a Gaza è il risultato della certezza che lo stato ebraico è visto come l’elemento di stabilità del medio oriente, nessuno, neppure i sauditi si possono permettere di perderlo. L’Iran al contrario è la mina vagante, la forza destabilizzatrice che finora ha alimentato la guerra nella regione. Combatterla non è più questione di decisioni da prendere dentro allo stato ebraico, ma da affrontare insieme. Teheran avrebbe potuto reagire ordinando un attacco da parte dei suoi gruppi armati, lanciando centinaia di missili contro le basi americane come fece dopo che gli Stati Uniti colpirono con un drone nel 2020 il generale Qassem Suleimani. Invece no, l’Iran ha scelto la reazione più plateale, la più scenografica, l’ha chiamata “Promessa vera”. Il capo dei pasdaran Hossein Salami ha detto che questa è “una nuova equazione”. L’Iran si è attribuito ogni singolo missile e ogni ronzio di drone, in un attacco che ha ricalcato il metodo che la Russia utilizza per bombardare l’Ucraina.


Isolare Israele in medio oriente non è possibile ed è difficile immaginare che mentre Washington e Gerusalemme si preparavano all’attacco di Teheran, non abbiano preso in considerazione una risposta da parte dello stato ebraico. Il presidente americano Joe Biden in una conversazione al telefono con il premier israeliano Benjamin Netanyahu gli avrebbe suggerito di accontentarsi della vittoria dell’altra notte, mettendolo in guardia più da una ritorsione immediata piuttosto che da un futuro attacco. La risposta ci sarà e le opzioni sono due: una è istantanea e Israele potrebbe decidere di effettuare un attacco simile, lanciando droni e missili verso l’Iran contro obiettivi militari, per dimostrare quanto le difese di Teheran siano scoperte: sarebbe un’umiliazione diretta. L’altra è ragionata e potrebbe incontrare il favore degli Stati Uniti: un attacco meticoloso, preciso contro un obiettivo sensibile.


Israele sente di non avere più tempo. Il successo con cui ha respinto l’attacco dell’Iran ha rassicurato il paese dopo il trauma del 7 ottobre, ha mostrato che la capacità di difesa esiste ancora, deve ristabilire però quella di deterrenza. Ieri mentre la televisione di stato iraniana mandava in onda le immagini di un attacco che non esisteva prendendo video vecchi del Cile in fiamme per dimostrare di aver fatto del male allo stato ebraico, gli israeliani uscivano dai rifugi e ricominciavano la loro settimana lavorativa. Non ci sono stati racconti di panico, il paese è già abituato alla nuova anormalità.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.